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Elena Bellantoni: il poetico è politico

Elena Bellantoni, artista vincitrice assoluta del premio Arteam Cup 2020, racconta la sua ricerca tra corpo, linguaggio, società e politica.

L’artista Elena Bellantoni (1975, Roma) è la vincitrice assoluta del premio Arteam Cup 2020 che, dopo gli altalenanti cambi di rotta che hanno interessato tutta la cultura contemporanea in questi tempi pandemici, è finalmente giunto a una conclusione che è un segnale di ripartenza.

Sancita con la cerimonia di premiazione dello scorso 16 maggio 2021, anche l’opera vincitrice segna una svolta che, al contrario, vuole essere un punto di rottura, presentando in una dimensione surreale, e al tempo stesso molto realistica, ciò che è stato e ciò che potrebbe essere di nuovo.

Il video I Fear di Elena Bellantoni apre infatti uno scenario interiore verso una direzione da non prendere: quella dell’abuso di potere.

«Avanzare o regredire. Spogliarsi o sporcarsi.
In un viaggio interrogante, mentale e rituale, di corpo e linguaggio alla ricerca del sé nelle sue diverse espressioni e dell’altro (qui in forma di specchio), l’opera attiva immaginari e vissuti chiari in cui immediatamente chiunque riesce ad immedesimarsi e li riattiva nella memoria vissuta o acquisita.
In tempi incerti, come gli attuali, il contributo dell’artista in questa direzione è un binocolo ma anche un caleidoscopio su cui ognuno può cogliere e agire percorsi differenti e alternativi nel reale di un presente che vorrebbe esorcizzare il riproporsi di vicende animate dalla paura».

Così scrive la giuria nella motivazione ufficiale, composta da: Marina Dacci (curatrice e membro del Comitato Scientifico della Fondazione Palazzo Magnani), Matteo Galbiati (critico d’arte e docente, Direttore web Espoarte e membro interno di Arteam), Lorenzo Madaro (curatore d’arte contemporanea e docente), Raffaele Quattrone (sociologo e curatore d’arte contemporanea), Leonardo Regano (storico dell’arte, critico e curatore indipendente), Livia Savorelli (Direttore Editoriale Espoarte) e Nadia Stefanel (direttrice della Fondazione Dino Zoli di Forlì, Cultural e Communication Manager per Dino Zoli Group).

> Fonti e approfondimenti in fondo all’intervista.

Premiazione di Arteam Cup 2020.
Premiazione di Arteam Cup 2020. Da sinistra: Nadia Stefanel, Diego Santamaria, Monica Zoli, Livia Savorelli, Matteo Galbiati, Elena Bellantoni, Alessio Barchitta, Ettore Pinelli.
Hai conseguito una laurea in Storia dell’Arte Contemporanea a Roma e hai continuato a formarti tra Parigi e Londra, fino al Master in Visual Art alla WCA University of Arts London.
Come, ma anche dove, quando e perché, hai scelto il video e la performance come mezzi espressivi della tua visione?

Elena Bellantoni: Ho iniziato a utilizzare il mezzo video come documentazione delle mie azioni performative, negli anni ho affinato il mio linguaggio visivo e in alcuni casi ho scelto di costruire dei lavori totalmente di regia. Il periodo berlinese e poi quello londinese mi hanno formato, in questo senso mi sento molto legata ad una certa video arte di ambito nord-europeo.
Nel tempo ho sviluppato, quindi, un mio linguaggio video che ha delle regole formali riconoscibili: ho creato una metodologia funzionale al mio obiettivo finale, in cui l’estetica dell’immagine resta comunque centrale.

La riflessione intima ed esistenziale sul mio rapporto con il reale ha caratterizzato il primo decennio di produzione.
In seguito, ho iniziato a concentrarmi su opere di natura partecipata. Inizialmente indagando il linguaggio performativo, poi permettendo a queste “azioni” di convergere in progetti video strutturati.

Il corpo è lo strumento con cui interagisco, che segna, traccia, attraversa, crea relazioni emotive e spaziali. Il mio corpo in questo senso è necessario. Considero i miei lavori più azioni che performance.
Queste azioni che progetto si inseriscono sempre in un territorio o spazio che analizzo e in cui mi ricolloco seguendo il fil rouge della mia ricerca.

Ad esempio Parole Cunzate (2015) indaga il concetto di rottura e di trauma. Lo spettatore è invitato a partecipare alla rottura e alla “cunzatura” di un piatto. Il termine “cunzare” deriva dal dialetto ostunese e si riferisce all’antica arte di mettere a posto, sistemare e rammendare piatti e oggetti rotti legati alla vita quotidiana. Ho ripreso l’antica tradizione della “cunzatrice”, ovvero di colei che girava per i paesi per aggiustare, rattoppare, ricucire piatti e oggetti casalinghi rotti. La tecnica consiste nella creazione di veri e propri buchi di sutura sulla superficie del manufatto, tenuti insieme da un fil di ferro e da una maltina. Nell’azione, il pubblico è invitato a sedersi e a rompere un piatto. A ogni partecipante chiedo che cosa si è rotto e trascrivevo ogni risposta su un piatto da “cunzare”. I piatti “cunzati” vengono infine composti in un’installazione circolare.

ArTalkers.it | Elena Bellantoni: Parole Cunzate, 2015 - performance installazione
Elena Bellantoni: Parole Cunzate, 2015 – performance installazione, Apulia Land Art Festival

Parole Passeggere (2015-17) si compone di storie di passaggio: chiedo al pubblico di sedersi e di scrivere narrazioni, pensieri, parole. In questa azione, le parole corrono sui tasti della macchina per scrivere, attraversano lo spazio bianco della pagina e raccontano storie di passaggio.
Scrivere ha un tempo, un battito e un ritmo.
Le storie che raccolgo sono appunto quelle dei passanti, invitati a sedersi su dei vecchi banchi di scuola e a scrivere – nell’arco di una giornata, dalle 8 del mattino al tramonto –, a delle vecchie Olivetti (nove per la precisione) narrazioni semplici, pensieri, parole passeggere. Ho realizzato questa performance nel porticato della Stazione Ostiense a Roma, luogo di passaggio dei pendolari della città, grazie alla collaborazione del MAXXI di Roma e in occasione del progetto “Il MAXXI esce dal MAXXI” per il Festival d’arte contemporanea “Inchiostro depARTure”. La performance è stata portata in giro per diversi luoghi e città in Italia, ha creato una sorta di mappatura, e tra nord e sud ho raccolto più di 800 storie e narrazioni.

Il mezzo filmico, unitamente alla fotografia, al disegno, la scultura e l’installazione rappresentano tanto un insieme di tecniche da approfondire, quanto una pluralità “linguistica” indispensabile a declinare in modo efficace la complessità del sistema mondo.
Il mio processo artistico si nutre inoltre del dialogo tra discipline umanistiche quali la storia come dispositivo di memoria e narrazioni, l’antropologia come luogo dell’incontro, la psicoanalisi come giardino in cui germoglia la parola.

L’elemento sociale e politico è il collante che contraddistingue la ricerca, la quale, tuttavia, conserva un forte sguardo poetico.

Il mio lavoro è processuale, interagisce con i territori che attraverso, si lascia modificare dalle persone che incontro e prende forma nello spazio pubblico come centro di osservazione.

Ogni dinamica politico-sociale indagata trova infine nel corpo – corpo altro, corpo femminile, corpo di artista – un privilegiato mezzo di sintesi. Forse l’unico, universale, strumento che può comunicare, in quanto corpo umano, mediante “prove di resistenza”.
Il mio corpo scrive quindi l’opera diventando un possibile luogo di risoluzione dei conflitti.
Il corpo è uno dei tanti strumenti che per me è diventato ad un certo punto necessario, perché ci sono delle cose che posso fare solo ed unicamente attraverso l’utilizzo del corpo performante, del corpo dell’artista.

Un elemento forte della mia ricerca è quindi il linguaggio e la parola che tracciano la semantica della nostra esistenza.
Io performo la parola tante volte: perché la chiedo, è una parola che si spezza, che si condivide, una parola che viene data.
La poesia visiva – praticata da molte artiste dagli anni ’70 – diventa performativa.
La poesia e la performance hanno, per me, un linguaggio molto simile; lavorano su una narrazione asciutta efficace che fluisce per immagini. La performance ha un enunciato secco, lavora e de-scrive immagini chiare, esattamente come fa un certo tipo di poesia a me molto cara: la parola diventa incarnata.

ArTalkers.it | Elena Bellantoni: Parole Passeggere, 2015
Elena Bellantoni: Parole Passeggere, 2015 – veduta installazione Stazione Ostiense, in collaborazione con il MAXXI | courtesy dell’Artista
Dopo Roma, Parigi e Londra, ti fermi per un po’ a Berlino, dove nel 2008 sei tra i fondatori di uno spazio no-profit, continuando negli anni seguenti a spostarti per partecipare a numerose residenze in Libano, Serbia, Albania, Messico.
Quale valore ha il viaggio nella tua ricerca?

Elena Bellantoni: Sono di origine calabrese, cresciuta nella mia prima infanzia in Africa e poi a Roma, migrata per otto anni a Berlino, poi Londra, e ora di nuovo nel Belpaese con diverse incursioni in America Latina e in altri luoghi per motivi legati al mio lavoro.
Non ho un accento del sud, capisco il tedesco ma non lo parlo bene, comunico in inglese e francese e parlo l’itagnolo.
Per diverso tempo mi sono interessata al concetto di lingua e traduzione nelle arti visive attraverso un progetto dal titolo Platform Translation, durato quattro anni e conclusosi con un’importante mostra alla Kunstraum Kreuzberg Bethanien e al NGBK di Berlino.
Nelle mie opere mi concentro quindi sui concetti di spostamento, attraversamento e marginalità del soggetto linguistico che ho declinato come nomade.

L’esperienza nomade del linguaggio, che vaga senza fissa dimora, abita i crocevia del mondo, regge il nostro senso dell’essere e della differenza, non è più l’espressione di una storia unica o di una tradizione. Il pensiero migra, va tradotto. Questo implica un senso diverso di “dimora”, di essere al mondo, significa concepire la residenza come qualcosa in movimento.
Per Rosi Braidotti “nomade è un verbo, un processo attraverso il quale tracciamo molteplici trasformazioni e molteplici modi di appartenenza, ognuno dipendente dal posto in cui ci troviamo e dal modo in cui cresciamo. Insomma, dobbiamo tracciare cartografie alternative così da poterci liberare dell’idea che possano esistere soggetti completamente unitari, che appartengono a un solo luogo.” (in Trasposizioni. Sull’etica nomade, 2008; cit. Rosi Braidotti, Nuovi soggetti nomadi, Luca Sossella Editore, Roma, 2002, p. 23.)

Maremoto è un lavoro di natura video-performativa realizzato sulle coste siciliane. Girato alle prime luci dell’alba, il video documenta il mio tentativo di cavalcare le onde del mare in sella a una bicicletta. L’azione che faccio, lo sforzo di attraversare il Mediterraneo su una bici, è di per sé impossibile, come spesso avviene nei miei lavori che riflettono sul concetto di utopia.
In questa prova di forza, il mare ha la meglio, io mi immergo fino a scomparire, e dallo stesso punto emerge un giovane di colore che ripercorre a ritroso il mio percorso per approdare finalmente sulla spiaggia e proseguire così il suo viaggio in bicicletta.
Maremoto è un’opera circolare in cui l’elemento dell’acqua, del mare, dell’attraversare, racconta la storia di Ibrhaima, un ragazzo arrivato a Lampedusa dal Senegal. È la sua voce ad accompagnare il video in lingua pulaar, il suo dialetto.
Nell’andare si trova il sé, così come nel tornare. Il desiderio di quest’incontro avviene sul confine del mare, il viaggio diventa un tentativo di ricucire due sponde, due orizzonti, più culture. Il Mediterraneo da sempre ha rappresentato una strada d’acqua percorsa da popolazioni che giungevano e ripartivano.
Le azioni riprese dal video sono costituite da due unici piani sequenza che danno corpo alla reale fatica dell’attraversare. Non c’è traduzione linguistica delle vicende raccontate da Ibrhaima ma, mediante le immagini e il suono della lingua, si percepisce la storia di uno dei tanti migranti approdato sulle coste mediterranee.
Il moto, contenuto nel titolo, sottolinea due azioni: quella della bicicletta e quella del mare. Ho scelto la bicicletta perché, passando del tempo in questa costa di confine, mi sono resa conto che la maggior parte dei ragazzi migranti che la mattina vedevo andare a lavorare nei campi usavano questo mezzo per muoversi. La fragilità della bici corrisponde alla fragilità delle imbarcazioni con cui approdano alle nostre coste. E io non potevo non provare a cavalcare questo Maremoto.

La migrazione è un viaggio di sola andata, non c’è una casa dove fare ritorno. La storia viene mietuta e fatta parlare, riletta e riscritta, e la lingua prende vita nel transito e nell’interpretazione. Tradurre è trasformare come dicevo prima, in Maremoto non traduco il racconto di Ibrahima, ma lo restituisco attraverso un lavoro di sforzo e resistenza fisica. Volevo sperimentare la violenza di questa alterità, di altri mondi, lingue e identità, non ricadere nel retorico con l’ennesimo racconto sul migrante, ma sperimentare in maniera concreta e poetica la sua storia. Il mar Mediterraneo abbraccia visivamente questa narrazione, diventa il confine e il luogo d’incontro allo stesso tempo. Dove l’io sparisce l’Altro emerge, da questa posizione comincio a capire che dove ci sono limiti, esistono anche altre voci, altri corpi, altre parole, dall’altra parte, al di là dei miei confini specifici. Trasportata dall’acqua guardo uno spazio potenzialmente ulteriore: la possibilità di un altro posto, un altro mondo, un altro futuro.

ArTalkers.it | Elena Bellantoni: Maremoto, 2016 - video
Elena Bellantoni: Maremoto, 2016 – video full HD | courtesy dell’Artista
La tua è un’indagine “sui concetti di identità e alterità attraverso dinamiche relazionali che utilizzano il linguaggio ed il corpo come strumenti di interazione.”
Il tuo approccio a queste tematiche cambia di volta in volta anche in base al mezzo, tra video e performance, fotografia e istallazione, o resta immutato?

Elena Bellantoni: Non esiste un mezzo privilegiato nel mio lavoro, utilizzo vari linguaggi che tessono la relazione tra me e il reale. I temi, le urgenze che affronto, si declinano in varie forme, ma dietro ogni opera c’è sempre un’evoluzione che mi porta a scegliere lo strumento di restituzione più adeguato.

Definisco la mia operazione di ricerca e ne restituisco al mondo le tracce.
La formalizzazione del lavoro è importante tanto quanto il processo.
La forma è contenuto.

Nel 2014 ho prodotto The Struggle for Power, the Fox and the Wolf, un video girato nella Sala delle Conferenze Internazionali del Ministero degli Affari Esteri alla Farnesina, dove successivamente è entrato a far parte della Collezione permanente del MAE. Nel filmato i ballerini di tango indossano due maschere di animali, rispettivamente da lupo e da volpe. I due danzatori si muovono all’interno del perimetro del grande tavolo, dove solitamente si riuniscono i capi di Stato in visita in Italia, con un atteggiamento quasi di sfida e contendendosi in qualche modo lo spazio di azione del proprio potere.
La battaglia è quindi dichiarata e aperta, non solo tra i due sessi ma anche tra i due animali che, come in un rituale di corteggiamento, si fanno avanti alternandosi l’uno con l’altro e mostrando il meglio delle loro capacità seduttive e persuasive.
Una voce accompagna questo duello, scandito da un audio che ne sottolinea la tensione, e, come se fosse una conferenza di natura scientifica, vengono declinati linguisticamente il nome fox e wolf. Il video ha un forte impianto linguistico-concettuale: il testo volutamente in lingua inglese, anche qui a porre l’accento sul potere della lingua dominante per eccellenza, diventa il fil rouge di questo passo a due. Faccio riferimento non solo ai lupi Alpha e all’idea di capo branco, ma anche al famoso caso di Freud, il “Wolf Man”,per passare al racconto dei fratelli Grimm “The Wolf and the Fox” (Il lupo e la volpe), e concludo con le teorie sul potere enucleate dall’antropologo austriaco Eric Robert Wolf, appunto.
Il tango – ballo dove solitamente è l’uomo che porta e la donna asseconda i suoi movimenti – diventa qualcos’altro: a un tratto, è proprio la donna a condurre questo gioco delle parti tra maschile e femminile, tra bestialità e dominio, tra lo spazio pubblico e quello privato della relazione.

ArTalkers.it | Elena Bellantoni: the fox and the wolf struggle for power, 2013 - video
Elena Bellantoni: the fox and the wolf struggle for power, 2013 – video full HD | courtesy dell’Artista

Ho mantenuto comunque nella mia ricerca una produzione video legata alle performance che dallo spazio intimo e domestico del mio studio si sono aperte allo spazio pubblico delle città e all’Altro.
Nello stesso tempo, mi sono misurata con altri mezzi a me molto cari, come il linguaggio pittorico, il disegno e l’installazione.

Per una mia personale nel 2017 alla Fondazione Rossini (a Briosco, in Lombardia), I give you my Word, I give you my World, ho messo in movimento tutte le mie anime: video, performativa, installativa e sonora.
Ho presentato, per esempio, Effetto Butterfly (2017), dove al centro del lavoro c’è il campo da tennis, che si colloca tra gli spazi del Rossini Art Site e l’area della casa della famiglia Rossini stessa. In questo caso ho voluto soffermarmi su un territorio di confine tra lo spazio pubblico e quello privato. Gli spettatori erano invitati a entrare nel campo e a partecipare a una partita invisibile: qui, omaggiando la scena finale di Blow up di Antonioni, un suono – di una partita di tennis – scandiva le battute di giocatori assenti, ai quali si sostituiva il pubblico occupandone lo spazio.
Io ti do la mia parola, io ti do il mio mondo ha l’obiettivo di lavorare con le parole che “nominano” la realtà e le emozioni in cui siamo immersi. Il titolo del progetto evidenziava, attraverso un gioco linguistico in inglese, lo slittamento di significato tra i concetti di parola e di mondo. Dare la parola diventa la possibilità di aprirsi e di manifestare un pensiero rendendolo visibile, rappresenta l’espressione rassicurante di prendersi un impegno con qualcuno e quindi di entrare in relazione.

In mostra ho presentato anche due installazioni-sculture: l’Età dell’oro (2017) e il Bigliardio (2017) raffigurante un nuovo “dio-pop”. L’elemento del gioco emerge prepotentemente in questa sculturina in ceramica pregna di ambiguità: la figura del comune omino da biliardino è dorata in oro 18 carati a somiglianza delle statuette degli Oscar e ha le estremità – le braccia – aperte come il Cristo Redentore di Rio de Janeiro. Posizionato in una teca, simile a quella utilizzata per i Santi e le Madonne, il Bigliardio diventa un vello d’oro e, facendo eco al calcio e al grande schermo, dichiara tutta la sua carica simbolica.
L’età dell’oro è una serie composta da due installazioni incentrate sul gioco, sull’infanzia e sull’arte. Le opere sono costituite da un dondolo, che ha alle due estremità due coltelli, e da un’altalena, che nella sua seduta presenta un tappeto di chiodi simile a quello dei fachiri. Sono entrambe dei giochi impossibili e “pericolosi” da praticarsi per lo spettatore, che è invitato ad avvicinarsi…

La cartina di tornasole in tutti i miei lavori – sia che si tratti di video, di performance, di quadri o di installazioni – è sempre la relazione, l’identità, l’alterità e il linguaggio. Attraversare le mie opere significa fare esperienza, entrare in un percorso di natura poetica e immagine-attiva. Il mio corpo è lo strumento con cui scrivo, incido, riprendo, disegno, interagisco con questo wor-l-d.

ArTalkers.it | Elena Bellantoni: Bigliardio, 2017
Elena Bellantoni: Bigliardio, 2017 – ceramica con lustro oro 18K, Fondazione Pietro ed Alberto Rossini | courtesy dell’Artista
Corpo, politica e società. Come si relazionano nella tua poetica?

Elena Bellantoni: Il personale è politico urlava un vecchio slogan degli anni della contestazione, credo che questo sia ancora vero. Penso che la Storia, con la esse maiuscola, si incroci spesso con le storie di ognuno di noi.
Il mio lavoro emerge da un’urgenza intima e reale, ma senza necessariamente dichiararne le motivazioni che lo muovono.

In Lucciole, del 2015 ispirato alle “lucciole” di Pasolini, ho realizzato 4 dischi 33 giri in vinile dove, attraverso 40 interviste, ho raccontato la storia “emotiva” del Belpaese tra il 1975 e il 2015.
A 40 anni dalla scomparsa di Pasolini, partendo proprio da un suo articolo uscito sul Corsera il primo febbraio del 1975, ho pensato di sviluppare un percorso che si muovesse a partire da una riflessione sulla sparizione delle lucciole.
Pasolini notava: Nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti), sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più.” (Pier Paolo Pasolini, “Il vuoto del potere, ovvero l’articolo delle lucciole”, in Corriere della Sera, Milano, primo febbraio 1975, uscito poi in Scritti corsari, Garzanti, Milano, 1975, p. 66.)
Quindi il suo articolo proseguiva con una riflessione sul potere costituito e costituente in Italia e sul vuoto che esso stava generando dal punto di vista politico, umano e sociale.
Sono nata proprio nel 1975. Con Lucciole ripercorro gli ultimi 40 anni della storia dell’Italia sovrapponendo la mia storia personale a quella politica.
Convinta che il percorso di ognuno di noi sia condizionato dai fatti di natura storica che ci riguardano dall’esterno, ho deciso di incidere su 4 vinili 40 pezzi audio legati ad avvenimenti dal 1975 a oggi. I vinili propongono così uno spaccato epocale che si interseca con il mio mondo privato. Sulle copertine ci sono dei collage che espongono visivamente la mia infanzia, per dar luogo a una narrazione poetica e nostalgica dove le lucciole sono sparite e quello che resta è la storia che ci attraversa e ci ha attraversato.

Il mio è un lavoro di stratificazione che mette insieme varie istanze e livelli a partire da quello personale a quello politico, dall’aspetto visivo-immaginativo al concettuale.
L’opera nasce e si sviluppa nonostante me, segue in questo caso il fil rouge della mia storia personale, ma non è necessario che quest’ultima emerga o sia palese.

Elena Bellantoni: Millenovecentosettanta lucciole, 2015 – dettaglio copertina | courtesy dell’Artista
ArTalkers.it | Elena Bellantoni: Lucciole, 2015 - dettaglio vinile
Elena Bellantoni: Lucciole, 2015 – dettaglio vinile | courtesy dell’Artista

CeMento è un lavoro sull’illusione e sulla menzogna su ciò che ci tiene a galla o ci fa affondare, ho prodotto questa installazione nel 2019 ed ho presentato a La Galleria Nazionale per un’importante mostra collettiva a cura di Teresa Macrì.

L’installazione è composta da giochi e oggetti legati al mare in cemento: un materassino, una boa, un secchiello, dei braccioli etc., che dovrebbero quindi galleggiare, ma non è così poiché sono fatti di cemento.
La menzogna, dal mio punto di vista, così come il mentire hanno connotato molti dei discorsi politici dell’ultimo ventennio e non solo.
Nello specifico, il cemento a partire dagli anni ’70 ha rappresentato il materiale che ha falciato e distrutto il Belpaese; e nel nostro immaginario collettivo è il materiale che viene usato negli omicidi di mafia, adoperato per cementificare i corpi e farli scomparire nella colatura e poi gettati chissà dove. Dal boom economico in poi il cemento è stato utilizzato nelle grandi opere pubbliche che dovevano in qualche modo rappresentare la rinascita dell’Italia. Un materiale che non dura più di 60 anni, come per dire che il nostro Paese si poggia sul nulla… CeMento assume quindi diverse connotazioni di natura visiva, concettuale e politica.
Tutti gli oggetti che presento rimandano in qualche modo all’infanzia, un periodo di leggerezza apparente, in cui si instaurano le basi per la crescita dell’individuo.
CeMento è un tentativo di lavorare su un piano poetico mantenendo pesantemente i piedi a terra: sono tutti oggetti che assumono un peso molto forte. Cementificare il linguaggio significa paralizzarlo, renderlo immobile. Ciò che viene pietrificato, trasformato in cemento, non può più svolgere la sua funzione, perde di forza.
CeMento vuole essere inoltre una riflessione sul ruolo dell’artista che prende una posizione dura, lapidaria, rispetto alla realtà che ha di fronte.

Dico sempre che la mia è una pratica di scavo: come un’investigatrice-archeologa metto insieme tracce della mia storia e di quella collettiva attraverso un processo di natura poetica.
Il poetico è politico: questo è il passaggio valido per me.

ArTalkers.it | Elena Bellantoni: CeMento, 2019
Elena Bellantoni: CeMento, 2019 – installazione La Galleria Nazionale | courtesy dell’Artista
I Fear è la tua opera decretata vincitrice assoluta del premio Arteam Cup 2020.
Si tratta di un tuo autoritratto in forma di video performativo che condensa in 60 secondi la condizione al limite che ognuno di noi ha a suo modo vissuto durante questa pandemia.
Ci racconti di I Fear?

Elena Bellantoni: Sono molto contenta di aver ricevuto il premio Arteam Cup 2020, è una grande possibilità per me di produzione e visibilità.
In questo periodo complesso sostenere gli artisti e riconoscerne il valore del lavoro è importante, quindi ringrazio pubblicamente tutto lo staff del premio e la Fondazione Dino Zoli.

I Fear è un lavoro che rappresenta bene la sensazione legata al primo lockdown.
Considero I Fear un autoritratto video performativo in cui l’io si “identifica” nella paura.
L’inizio del video sembra spensierato – anche se l’azione del tagliare i capelli non è del tutto quotidiana, ma appartiene alla condizione di isolamento – il motivetto sonoro accennato dalla voce sottolinea una situazione di leggera inconsapevolezza. Quando il canto intimo si trasforma in un verso animalesco qualcosa cambia: la trasposizione sul piano visivo è l’assunzione di connotati da dittatore.
L’io che emerge è grottesco, come un animale in cattività – l’urlo delle scimmie aggiunge un elemento non solo istintivo ma anche distopico – l’io autoritratto scopre una parte di sé nascosta e perturbante.

Il lavoro è una riflessione sulla condizione di costrizione e di potere sui nostri corpi durante il periodo di quarantena, in cui la pandemia sembra aver prodotto una grande esperimento sociale mai visto prima.
La paura che affiora è quella del ritorno a nuove forme di totalitarismo, di sospensione dei diritti, non solo imposta esternamente e socialmente, ma che permea ed incide sul piano intimo e personale trasfigurandolo.
Deleuze e Guattari in Mille piani ci ammoniscono: attenzione al «fascista che siamo noi stessi, che nutriamo e coltiviamo, a cui ci affezioniamo»; attenzione alla spinta cieca alla conservazione di noi stessi che si nasconde nel proclamare una democrazia finalmente realizzata che anziché rendere porosi i suoi confini li sa solo armare.

La riflessione sulla violenza generata da una condizione di paura è stata già oggetto di indagine di un mio lavoro The Beauty and the Beast (2017) in cui una bambina legge un estratto de “La Banalità del Male” di Hanna Arendt camminando nel Museo di Scienze Naturali di Milano. Gli unici ascoltatori e spettatori di questa passeggiata atroce e surreale sono degli animali, ma impagliati e quindi morti.

Considero il dittatore tedesco un’icona negativa del nostro Novecento, già “utilizzata” da altri artisti che ne hanno evidenziato la violenza evocativa attraverso concetti di brutalità e caduta. I rimandi chiari alla storia della performance – mi riferisco ad un lavoro del 1970 di Rebbeca Horn Cutting Hair & Oasis – sono molti: lo stesso gesto di tagliarsi i capelli che è il punto di partenza qui invece rimanda ad una condizione comune in questo periodo di quarantena forzata.

Elena Bellantoni: I Fear, 2020
Elena Bellantoni: I Fear, 2020 – video full HD, durata 60”
Anche in I Fear, come in molte tue opere, c’è un rimando femminista su cui ti chiederei di soffermarti con qualche considerazione, anche di carattere più ampio all’interno della tua poetica.

Elena Bellantoni: “Il personale è politico” (lo slogan di cui ti parlavo prima) appartiene in realtà al movimento femminista teorizzato da Carla Lonzi. In I Fear echeggia ed indica bene la questione: la messa in discussione della separazione tra la sfera pubblica e quella privata.
L’oppressione individuale, il controllo, diventa oggetto da cui scaturisce una riflessione anche sul piano collettivo.
Come artista e donna considero il corpo un soggetto politico, trasformarlo e trasfigurarlo è un atto duro e di protesta contro una condizione imposta.
La questione “femminile” la attraverso e la analizzo nella mia pratica artistica da diversi punti di vista, che nono sono sempre necessariamente espliciti, ma rientrato in un discorso complesso e stratificato.

ArTalkers.it | Elena Bellantoni: On the breadline, 2019
Elena Bellantoni: On the breadline, 2019 – video 4k, dettaglio coro Istanbul | courtesy dell’Artista

Ho lavorato un anno al progetto On the breadline, vincitore della IV edizione dell’Italian Council, con ben cento donne di quattro paesi differenti: Serbia, Grecia, Turchia ed Italia.
Ho scelto di lavorare con dei cori femminili proprio per dare voce e per rendere queste donne protagoniste di un processo di riflessione e di cambiamento.
Sono andata alla ricerca della breadline, la linea del pane ma anche la linea di povertà in questi territori.
Il punto di partenza è stato un canto di protesta Bread&Roses (il pane e le rose) degli anni dieci del novecento. Il testo è il frutto di un discorso di una leader femminista socialista Rose Schneiderman, di origine polacca immigrata negli USA, considerata una delle più grandi sindacaliste della storia, durante uno sciopero di lavoratrici di un’industria tessile a Lawrence nel 1912: “ ciò che la donna che lavora vuole è il diritto di vivere, non semplicemente di esistere – il diritto alla vita così come ce l’ha la donna ricca, al sole e alla musica ed all’arte. Voi non avete niente che anche l’operaia più umile non abbia il diritto di avere. L’operaia deve avere il pane, ma deve avere anche le rose…”.

Questa riflessione era già in qualche modo presente in un’altra produzione La lucidatrice, prodotta per il Museo Pietro Canonica di Roma a cura di Claudio Libero Pisano, in cui ho coinvolto un gruppo di 15 donne per una performance collettiva sul lavoro dell’artista.

L’educazione patriarcale e la sua violenza, sul corpo ma anche psichica, emerge con Frustr|azione, un lavoro presentato all’interno di Magma Body and Words a cura di Benedetta Carpi de Resmini all’Istituto Centrale per la Grafica di Roma.
Ho utilizzato 25 cinture (che ho realizzato con le dimensioni dei componenti della mia famiglia) per compiere un’azione violenta, quella del frustare, riprendendo qui simbolicamente l’uso del nervo e della cinta da parte del maschio per l’educazione dei figli. L’azione è stata smorzata e alleggerita con la partecipazione del pubblico e l’uso del linguaggio, rispetto alla mia domanda iniziale: cosa ti frustra? Le cinte sono diminuite, man mano, fino ad annullare il gesto violento.

Forse il lavoro che evidenzia la mia riflessione sul corpo della donna è The Highlighter, un’opera sul linguaggio sessista – contro le donne – utilizzato in diverse campagne pubblicitarie in Italia e all’estero negli ultimi settanta anni.
Ho iniziato a collezionare e archiviare fotografie di queste pubblicità, scaricando materiale dal web e camminando in diverse città, raccogliendo più di 200 pubblicità dagli anni sessanta ad oggi che ho deciso di rielaborare mettendone in evidenza degli aspetti sia linguistici che visivi.
Ho deciso di usare due colori evidenziatori il giallo ed il fucsia per “mettere in luce” e sottolineare l’ambiguità e la violenza di queste pubblicità che ormai sono entrate nel nostro immaginario collettivo.
Lo sguardo è come diventato anestetizzato ed inconsciamente il lessico sessista è entrato nella vita di tutti i giorni.

ArTalkers.it | Elena Bellantoni: the Highlither, 2017
Elena Bellantoni: the Highlither, 2017 – serigrafie colori fluo | courtesy dell’Artista

L’ultimo lavoro che ho prodotto quest’anno è un video dal titolo FUTURA, che riflette sulla causa del nostro isolamento nel periodo pandemico, sull’importanza delle nostre radici, sull’entità del contatto con l’altro, sul valore della connessione con il mondo circostante e con la natura.
Un valore misurabile.
Un valore che trasmigra all’albero la connessione che naturalmente intercorre negli individui del genere umano, in cui privato e pubblico si mescolano. È lo spazio negato che trova modo di attorcigliarsi all’altro attraverso un medium virtuale, così come l’albero monco di spazio per raggiungere il sole attorciglia i suoi rami trovando una nuova soluzione.

L’audio che utilizzo nel video è recuperato dai suoni prodotti dalla natura e dall’interazione con il corpo, un tentativo di stabilire un contatto fisico, ma allo stesso tempo linguistico, con l’olivo.
Ho lavorato con sei metri ripiegabili che ho utilizzato per definire le distanze e le misurazioni, attenendomi, di conseguenza, a un codice antropocentrico, a una metrica umana. Il metro diviene misura di un linguaggio che riscrive la semantica dell’esistenza che, a sua volta, risiede nel grembo della natura, la Madre Terra dalla quale partire per ridefinire l’essenza, sostantivi declinati al femminile come definibile al femminile è per me il nostro futuro che si tramuta in FUTURA.

Pertanto la risposta a questa ‘battaglia’ non può che essere data dalla natura, la quale diventa la metrica per la nascita di una futura coscienza collettiva che dall’io si traduce in un noi assembrato, prossimo, condiviso.

ArTalkers.it | Elena Bellantoni: FUTURA, 2021
Elena Bellantoni: FUTURA, 2021 – video 4k, video still | courtesy dell’Artista
Quali sogni e desideri per il futuro del contemporaneo ha rafforzato, o fatto scaturire, questo tempo pandemico?

Elena Bellantoni: “La Terra si sta ribellando contro il mondo. L’inquinamento diminuisce in maniera evidente. Lo dicono i satelliti che mandano foto della Cina e della Padania del tutto diverse da quelle che mandavano due mesi fa…” afferma la voce di Franco Berardi Bifo nelle sue “cronache della piscodeflazione” che mi ha tenuto col cervello acceso durante i mesi di quarantena su radiovirus.org – presente in versione scritta su not.neroeditions.com dal 16 marzo.

Le città sono diventate le nostre nuove gabbie, in questo periodo c’è chi sogna un pezzo di giardino o il ritorno alle campagne, in un’economia “collettiva” dove il denaro è sostituito dallo scambio, questo forse non è solo un desiderio. Forse l’illusione ex sessantottina delle comuni sta tornando ma con una veste nuova, spinta dalla crisi e dal riconoscimento che le città che abbiamo costruito non sono più dei modelli sostenibili.

Ma anche le campagne hanno le loro giuste rivendicazioni, in replica a Salvini che in questo periodo pandemico si è detto contrario a una più generale regolarizzazione dei migranti irregolari, Aboubkar Soumahoro, italo-ivoriano, – leader del sindacato Usb – risponde a tono al leader leghista sulla questione lavoro dei così detti nuovi schiavi che, lavorando come braccianti per pochi euro all’ora e in condizioni disumane, a vantaggio dei “caporali” – spesso italiani – della filiera della distribuzione vengono sfruttati.
Il sindacalista, laureato in sociologia, è infatti in prima fila nella battaglia dei diritti dei braccianti utilizzati nelle nostre campagne.

La seconda manifestazione in tempo di COVID, dopo quella ben organizzata a Piazza del Popolo a Roma – in cui per la prima volta dopo tanti anni ho visto una piazza piena di giovani con idee molto chiare –, è stata quella per #statipopolari promossa proprio da Aboubakar e dedicata agli emarginati e agli ‘invisibili’ braccianti, ma anche lavoratori precari e riders.
«Si può considerare veramente libero un uomo che ha fame?»
. Soumahoro inizia a parlare citando un ex presidente della Repubblica: Sandro Pertini.
Allora questa linea di crisi che si sta delineando sempre più forte in questo periodo, dove ci porterà?

La vera performance collettiva sarebbe ragionare su una sospensione del funzionamento del denaro: il virus semiotico sottrae i corpi all’economia, i corpi rallentano i loro movimenti.
Il corpo planetario, così lo definisce Bifo, è entrato in convulsione dopo decenni di accelerazione è colpito dal collasso della frenesia della crescita.

Credo che forse unicamente una collaborazione collettiva, corale, da oggi in poi ci consentirà di inventarci nuove forme di coabitazione e di fare comunità.
Così come scrive il filosofo sloveno Slavoj Žižek nel suo Virus: “una società alternativa, una società che vada oltre lo Stato-nazione e si realizzi nella forma della solidarietà globale e della cooperazione”.

Ritratto di Elena Bellantoni
Ritratto di Elena Bellantoni
Infine, quali sono i tuoi prossimi progetti?

Elena Bellantoni: In questo momento sono in piena produzione per progetti differenti che sto portando avanti.

Uno è legato alla figura di Dante da cui prendo il largo per una riflessione sulla libertà e sul potere, elementi centrarli nella poetica dantesca – così come nel mio lavoro – che trovano il centro nella figura di Catone il censore nel canto I del Purgatorio; per un progetto installativo durante un Festival di Land Art in Emilia Romagna.

L’altro è una nuova produzione video in 16mm, per una mostra che inaugura a Settembre prossimo a Milano, un omaggio ad un regista che amo molto, Andrej Tarkovskij, e un suo film del 1983 Nostalghia.

Inoltre parteciperò ad un evento di Performance al nuovo Museo MAXXI dell’Aquila da metà Settembre, ma sono in work in progress.
Durante il mese di agosto sarò in residenza artistica in Sardegna, in un piccolo paesino dell’entroterra, a Donori.
In questo momento sono in Sicilia per un sopralluogo.

Insomma, dopo il vaccino Astrazeneca si ricomincia a far muovere le idee con la speranza che non torni tutto esattamente com’era prima del COVID-19: come ti spiegavo prima, abbiamo bisogno di lentezza.

FONTI e APPROFONDIMENTI:
- On the Breadline, sito ufficiale del progetto di Elena Bellantoni (link)
- Cronaca della psicodeflazione, di Franco Bifo Berardi (link)
- Arteam Cup, sito ufficiale (link)

Alice Traforti

Founder e Redazione | Vicenza
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