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Giovanni Ozzola: Octillion

È recente la scoperta di un team di astrofisici americani secondo cui circa la metà del nostro corpo ha origine cosmica. Come fauna, flora e materiali inerti sulla nostra terra, siamo agglomerati di atomi provenienti da collisioni stellari. In media, siamo composti un da un ottilione di atomi, cifra numerica seguita da quarantotto zeri. Da quest’immagine prende spunto la personale di Giovanni Ozzola alla Galleria Continua di San Gimignano, intitolata appunto “Octillion”, che riunisce sculture, fotografie inedite e un’opera video.

Dopo aver intrapreso il percorso di fotografo da giovanissimo, Ozzola s’indirizza verso una pratica artistica incentrata sulla dimensione rivelatrice della luce, che avvolge e dissolve i confini fra ambienti e oggetti creando visioni oniriche. Le sue composizioni fotografiche sono spesso formalmente essenziali e focalizzate a catturare stati liminali di fenomeni naturali o di stati d’animo. È costante il dialogo con la pittura che attraversa, oltre alla fotografia, tutti i campi della sua azione artistica. La sua ricerca intreccia temi quali il viaggio e l’esplorazione come metafore esistenziali, la collocazione dell’uomo nello spazio e nel tempo, l’autoconsapevolezza attraverso la percezione. Abbiamo incontrato l’artista per parlare di “Octillion” e in generale della poetica del suo lavoro, densa di quesiti filosofici e universali.

 

Giovanni Ozzola: Duemiladiciotto - fallen blossoms #20, 2018

Duemiladiciotto - fallen blossoms #20, 2018, stampa giclée su carta cotone, Dibond, cornice
Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana.
Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio.
La tua nuova esposizione alla Galleria Continua s’intitola ‘Octillion’, mi spieghi cosa significa e com’è nata la mostra?

Dalla lettura di un’intervista di un fisico che descrive come ogni corpo umano sia composto da sette ottilioni di atomi. Un ottilione è un numero che contiene quarantotto zeri. Tutti gli atomi si sono creati nel Big Bang, e si manterranno per chissà quanto tempo dopo la nostra permanenza sulla terra. Ad un livello profondo, noi siamo parte dell’universo: tutto ciò che consideriamo essere naturale e artificiale è in realtà creato con la stessa materia.

Il fisico concludeva con una bella immagine, cioè che lui, che passa la vita a studiare gli atomi, altro non è che un agglomerato di atomi che studiano sé stessi. Durante la nostra esistenza in maniera volontaria o involontaria lasciamo dei segni, delle cicatrici, come tutto ciò che ci circonda lascia delle cicatrici su di noi. La mostra nasce da queste considerazioni.

Giovanni Ozzola: Light Blue Wall, 2018

Light Blue Wall, 2018, silicone, pittura, maglia di filo.
Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana.
Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio.
Mi parli dei nuovi lavori che si trovano in mostra, gli strappi da muro che hai realizzato su pareti segnate da graffiti?  Da dove nasce l’ispirazione?

Tutta la mostra indaga l’idea della cicatrice e del segno sia a livello individuale che a livello sociale, lasciato o subito.  Per quanto riguarda l’ispirazione, il bagaglio culturale ha sicuramente influito sul mio approccio alla pratica dell’arte: sono cresciuto a Firenze, ho una base di storia dell’arte, ma soprattutto l’ho vissuta per osmosi. Forse gestisco meglio questo bagaglio ora che vivo lontano dall’Italia, in isole abbastanza remote.

La tecnica adottata per gli strappi è simile a quella tradizionale, ma applicata alle pareti di bunker o di luoghi abbandonati, che si trovano perlopiù alle Canarie. Questi lavori tuttavia sono anche molto legati alla fotografia. I muri per me sono una sorta di fotogramma con una capacità d’impressione molto più lenta rispetto alla pellicola fotografica. Un materiale sensibile che ha registrato per anni il passaggio delle persone. I graffi, le incisioni fatte con chiavi o chiodi sono una mappatura di trent’anni di vita di un luogo, visto che le prime scritte sono datate 1985. L’idea di fare questi lavori nasce anche dalle mie cicatrici: in fondo le pareti sono la pelle di un luogo.

Giovanni Ozzola: azul, 2018

azul,2018,stampa giclée su carta cotone, Dibond, cornice.
Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana.
Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio.
È vero che quando hai iniziato a interessarti di fotografia tenevi le fotografie in uno ‘studio’ portatile, una piccola scatola verde?

Sì è vero, e quel gruppo di immagini è ancora in quella scatola! Fu una necessità dettata da una situazione contingente di nomadismo ‘obbligato’, che ho subito e sofferto, ma che in un secondo momento mi ha dato forza. In seguito, comprai uno studio, e mi strutturai. Ora sono tornato al nomadismo, nel senso che viaggio in continuazione. Ho una base dove tornare, ma non dipendo più da un luogo o da professionalità intorno ad esso, realizzo i miei lavori dove mi trovo.

La tua carriera è iniziata come fotografo, è corretto? Quando hai capito che la tua pratica fotografica tendeva verso l’arte?

Sì, sono uscito di casa molto presto, a sedici anni, e mi sono mantenuto con la fotografia commerciale per alcuni anni. Quasi subito però ho preso una direzione artistica, anche per una serie di casi fortuiti.   Un giorno mi fu detto che ero molto egoista a non mostrare le fotografie che tenevo nella famosa scatola verde, e le mostrai al curatore Pier Luigi Tazzi, che mi pose una domanda che continua felicemente a tormentarmi. La domanda era: queste immagini bidimensionali, che cosa sono e che cosa fanno nello spazio? La risposta fu uno dei miei lavori che considero più iconici, intitolato “Poltrona” (2003), dove tutto si fonde nella luce che annulla i confini fra le cose, e le dimensioni sono reali. Quindi lo spettatore assume il mio punto di vista, la mia posizione nello spazio.

Spesso il tuo modo di fotografare il paesaggio è paragonato alla pittura, soprattutto perché la luce è protagonista delle tue immagini. Qual’ è il tuo rapporto con la pittura e quali i tuoi punti di riferimento?

Penso che ogni artista abbia uno sguardo particolare; io penso di avere uno sguardo pittorico, anche quando faccio una scultura. Il tema della luce nel paesaggio è stato declinato dal Romanticismo, solo per fare un esempio. Ma principalmente per me è importante una condizione dell’uomo, quella della “Stimmung” un termine che significa sentirsi parte di qualcosa di più grande di noi, e contemporaneamente, a specchio, avere la percezione del nostro corpo e delle nostre sensazioni.

Dalla fotografia alla scultura e installazione: com’è nata questa esigenza di rendere l’immagine ‘oggettuale’?

Proprio da quella domanda che mi fece Pier Luigi Tazzi. La seconda domanda, il secondo ‘dottorato’, per così dire, fu: ‘cosa fanno le persone intorno ai tuoi lavori’? La fotografia è per me il momento più alto di un’esperienza: è come avere un’intuizione in cui blocchi il momento clou, un po’ come il diapason che blocca la vibrazione più alta, che poi resta per sempre. Nell’installazione o nei video, questo momento è più prolungato, ma il principio è lo stesso.

Giovanni Ozzola: Chiocciole- primavera, 2018

Chiocciole- primavera, 2018, bronzo. Ø 7 x 190 cm ciascuna.
Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana.
Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio.
Anche nei tuoi oggetti tridimensionali la relazione fra luce e ombra è importante. Penso alle Chiocciole, o alla serie “Star Birth (Dying and Borning series)” del 2012, in cui utilizzi legante filmogeno su ardesia. In particolare, questa serie sembra contaminare la pittura con la fotografia e l’installazione. Mi parli di queste opere?

Il lavoro delle chiocciole sottolinea proprio il discorso centrale della mostra, cioè la mancanza di differenze fra artificiale e naturale, che noi naturalmente percepiamo per una serie di parametri che abbiamo creato.

Queste fusioni in bronzo sono calchi presi dal vivo, da qualcosa che ho incontrato: chiocciole avviluppate intorno a tondini di ferro. Mi sono domandato che cosa facessero sopra a dei tondini degli animali così perfetti, a impatto zero, che addirittura riportano la sezione aurea sopra sé stessi. Un amico ricercatore mi ha spiegato che le chiocciole si nutrono di ruggine, e questo mi ha fatto pensare che esiste un ordine predeterminato delle cose. Ho creato una fusione unica in bronzo, in cui l’unico elemento che distingue le chiocciole dal tondino è una leggera lucidatura. Ma tutto è fatto dello lo stesso materiale, la differenza è nella nostra percezione.

“Star Birth (Dying and Borning series)”, I lavori in ardesia di cui accennavi, sono delle piccole pozze sull’universo. Le stelle ci hanno aiutato a capire dove siamo in un tempo passato, ma anche nel presente continuano ad essere una luce nel buio. Mi interessava anche evidenziare che il cielo è sopra ma anche sotto di noi: affacciarsi su queste lastre è un po’ come affacciarsi sull’universo, ti posiziona nello spazio.

Giovanni Ozzola: Cháos in Kósmos - Dias, 2018

Cháos in Kósmos - Dias, 2018, carta nautica antica, inchiostro nero. 70 x 102.5 cm (mappa), incorniciato.
Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana.
Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio.
Linee, traiettorie, mappe aeree e terrestri si ritrovano continuamente nel tuo lavoro.  Sono strumenti o tracce personali d’orientamento nello spazio/ mondo, oppure hanno altri riferimenti?

 Ho ripercorso nel mio lavoro le rotte degli esploratori che hanno viaggiato nell’ignoto. Oggi non condividiamo l’ignoto, perché non è più uno spazio intorno a noi ma è diventato una percezione, la sensazione di quello che potrebbe succedere nel domani, ad esempio. La terra è stata mappata completamente, e ora l’ignoto è stato spinto fuori dalla terra, nell’Universo. Questo è successo perché alcuni individui hanno fronteggiato le proprie paure, è questo ciò che mi affascina..

Un tuo lavoro iconico, la video installazione “Garage-Sometimes You Can See much more” (2009-2012, dove una serranda apre lentamente su una vista di luce e mare) è stata esposta in diversi musei. Mi racconti com’è nata?

Spesso la presa di coscienza di un’intuizione avviene in ritardo rispetto all’intuizione stessa, e così la realizzazione del lavoro, con cui cerchi di avvicinarti a quel momento di lucidità. Una decina d’ anni prima di realizzare “Garage”, che è un lavoro molto importante per me, ho avuto, in un luogo preciso, questa ‘folgorazione’: la visione del respiro della luce. Nella prima parte del mio lavoro, la luce rendeva tutto un unico corpo, dove la grevita’ del quotidiano si stempera, e ci si perde nella luce.

È poi seguita una fase in cui lavoravo tanto al buio, addirittura aspettavo la notte con la luna piena per fotografare e girare video. Cercavo il momento in cui al buio ci si predispone alla visione e si tenta di recuperare la propriocezione, la percezione della nostra fisicità nello spazio, dove una percentuale di ognuno dei nostri sensi lavora per darci la coscienza di dove siamo, senza il supporto della vista. “Garage” per me ha un’armonia fra queste due condizioni, la luce e il buio. Anche il suono, elemento che non avevo valutato prima di fare il lavoro, è importante: il suono meccanico della saracinesca che si apre e si ferma, il rumore del vento e dell’acqua, e poi il ritorno nel buio. Questo lavoro ha una serie di rimandi, uno dei quali è la vicinanza con “Stanze sul Mare”, di Edward Hopper.

Giovanni Ozzola: 3000 b.c.e. – 2000 - il cammino verso se stessi, 2012

3000 b.c.e. – 2000 - il cammino verso se stessi, 2012, incisione su ardesia, 98 elementi.
Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana.
Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio.
Anche il mare è un’immagine ricorrente, sia come presenza reale che nelle serie con le rotte marine, o nelle sculture. Che rapporto hai con il mare?

Ciò che mi affascina maggiormente rispetto al mare è l’idea di limite, essere ‘on the edge’ di qualcosa, la precarietà.  Questa è anche una condizione delle isole, dove attualmente vivo, in mezzo all’oceano, considerate ultra-periferia dell’Europa. Anche la barca in fondo è un luogo precario, dove la tua presenza è molto forte ma se fai un passo finisce.

Hai anche collezionato oggetti che sono legati al mare: campane di navi e carte nautiche che poi manipoli e trasformi dando loro un nuovo contesto…

 Come oggetto anche le campane sono un’altra affermazione di ‘esserci’. Servono proprio a questo, a lanciare un ‘io ci sono’ in caso di nebbia. Ho iniziato a collezionarle per me, e in seguito sono diventate parte del mio lavoro. Ho fatto una riflessione: le navi cambiano bandiera, nome, fanno naufragio, vengono smantellate, ma le campane continuano a suonare sempre la solita nota, imperterrite. Le frasi che ho inciso su queste campane invece, sono cicatrici della mia memoria, frasi che ho letto e che mi sono rimaste ‘agganciate’. Ma il significato delle parole nel tempo muta; quindi ho sovrapposto queste due diverse esperienze. Sulle carte nautiche, carte vissute, segnate da carteggi, ho mappato con inchiostri immagini dell’universo profondo, sovrapponendo due mappature: è sempre un lavoro sulla nostra percezione, sull’unione di due dimensioni.

C’è un progetto che ancora non hai avuto modo di realizzare che ti intriga particolarmente? Un luogo che vorresti fotografare?

Sì, ci sono luoghi con i quali ho sentito una vicinanza particolare, ad esempio il Jeu de Paume a Parigi. Ma in generale a causa della velocità ed efficienza che in questi tempi vengono richiesti a noi tutti, vivo in un costante dopo. Inaugurerò ad aprile una mostra a Londra, poi in Cina, e poi in autunno a Johannesburg, poi Seul… e poi ogni tanto, una pausa, per necessità.

Giovanni Ozzola: Plants - Tus lunares son estrellas #1, 2016-2018

Plants - Tus lunares son estrellas #1, 2016-2018, bronzo, ferro.
Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana.
Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio.

Alessandra Alliata Nobili

Founder e Redazione | Milano
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