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Cesare Berlingeri: una piega, un alito di vento.

Ogni piega è un’idea, una dimensione dello spirito, una continua filiazione concettuale; ogni suo lavoro è un incessante riprodursi di pieghe, riserva inesauribile di altre piegazioni, di stratificazioni fertili di segni e simboli, di accordi ritmici in cui si gioca un dialogo essenziale tra luce e ombra.
“Piega su piega, piega nella piega”: così si snoda il processo creativo che racconta la transitoria “verità di una variazione”(G.Deleuze), l’essenza mutevole di un “universo in movimento”; così il gesto di Cesare Berlingeri avvolge la tela, modula la materia, costruisce, nella corporeità della piega, la sostanzialità dell’opera. Il suo è un gesto magico, carico di rimandi, di memorie mitiche; un gesto che, a tratti, diventa quasi una danza, una straordinaria pantomima, che è piega essa stessa, corpo piegato che piega, dispiega e ripiega la tela imbevuta, pregna di colore. Geniale funambolo, Berlingeri compie incredibili evoluzioni, traducendo nel suo gesto, forte e lieve ad un tempo, armonie di pieghe che prendono corpo, si gonfiano di pesante materia, ma sono, per lo sguardo che con delicata carezza le sfiora, leggere e sensibili: quasi un alito di vento che s’alza al di là dell’azzurro, forse in qualche costellazione. La distesa di pieghe davanti ai nostri occhi è prodiga scaturigine di percorsi analitici e la conversazione si apre ad un coinvolgente eloquio. Anche il suo dire è tenero vento che muove fascinazioni narrative, parole sospese tra la molteplicità di segni nascosti, secretati all’interno delle pieghe, quelle stesse pieghe che il mio pensiero attraversa, che il mio sguardo esplora, percorrendo, in una continua sinestesia visiva, le estensioni evolutive, mobili, della sua opera.

Oltremare piegato, 2016, pigmento e acrilico su tela piegata, 122,5 x 120,5 cm

È del 2018, il volume Il silenzio della materia – a cura di M. Vanni con prefazione di T. Trini, edizione Prearo, collana delle Grandi monografie – presentato per la prima volta a Palazzo Reale, Milano, e, successivamente, al Chiostro del Bramante, Roma. Le presentazioni del volume d’arte continueranno, in Italia e all’estero, nei prossimi mesi.
Dal 13 settembre al 14 ottobre sarà presente a Contributi al Novecento da Boccioni a Rotella ai contemporanei. La collezione del Maon, a cura di Bruno Corà e Tonino Sicoli, Fondazione Stelline, Milano.
A febbraio del 2019 ci sarà una grande antologica presso il Museo Marca di Catanzaro

La tua opera si sta evolvendo per piccoli scarti laterali, per piccoli movimenti quasi impercettibili, proseguendo coerente sulla stessa linea di conquista della spazialità, delle pieghe, del colore. A saperla cogliere, c’è sempre una sorpresa nelle tue piegature.

Cesare Berlingeri: In realtà non esiste lo sviluppo dell’opera. Un artista ha due-tre idee in tutto il suo percorso; quelle due-tre idee devono diventare l’ossessione della sua vita affinché possano tramutarsi in arte. A Fontana ci vollero 10 anni per passare dal buco della tela al taglio della tela. L’artista si muove per piccolissimi passi. Tutti gli intellettuali, tutti gli scrittori sanno che un punto e una virgola possono cambiare e rivoluzionare una pagina scritta. Per quanto riguarda la ripetitività del lavoro, allora uno pensa a Morandi che ha dipinto bottiglie per tutta la vita, a Sironi che ha dipinto montagne e qualche figurina, a Fontana che ha “tagliato” per venti anni tele e così con altri esempi. L’arte come la vita non si può ripetere. Eraclito, non a caso, diceva che “non si può entrare nello stesso fiume due volte”. Allo stesso modo non si può ripetere un’opera due volte. Fontana non poteva ripetere lo stesso taglio due volte perché c’erano uno spazio diverso, un’atmosfera diversa, una superficie diversa.
Vorrei anche chiarire questo fatto delle pieghe. Io faccio dei quadri perché con i quadri si possono dire delle cose che non si potrebbero dire altrimenti. In questo contesto è indifferente che ci siano o meno delle pieghe. Il mio sogno è un po’ alchemico. Spero che la gente che guarda i miei quadri non veda le pieghe, ma guardi solamente il quadro perché il mio sogno è far scomparire le pieghe affinché diventino segno.

E’ un concetto che ritorna, che hai rimarcato altre volte.

Cesare Berlingeri: Si, perché il mio è stato sempre un dialogo tra luce e ombra che costruiscono il segno. Non un segno tirato di carbone. Che poi, all’interno delle mie opere, io senta il bisogno, carnale quasi , il piacere anche, di incidere la materia, di scrivere quello che mi accade, se sto ascoltando Mozart o Stockhausen, di scrivere la mia giornata, se sto guardando un quadro importante che mi interessa, tutto questo è un’altra storia. Un giorno stavo dipingendo un quadro bianco, sopra una grande tela bianca e sul muro, chissà perché, il giorno prima avevo appeso “Le bianche scogliere di Rugen” di Caspar David Friedrich. Ho visto questo quadro immenso per cui ho cominciato a tracciare queste “Bianche scogliere di Rugen” tra le pieghe, tra la materia, scrivendo quello che c’era davanti a me. E allora non ti poni limite di dire che cosa è astratto e che cosa non è astratto, che cosa è figurativo o non figurativo: l’arte ha la facoltà di essere sempre attuale, in qualsiasi momento. Caravaggio oggi è più attuale che nel Seicento, per cui non ha bisogno di avere un’epoca precisa. L’arte è al di sopra delle determinazioni temporali. Chiaramente, io viaggio con l’aereo: non ci metto tre mesi, quanto ci ha messo Leonardo per arrivare a Milano da Roma o da Firenze, ci metto un’ora. Debbo prendere atto di questo strumento che velocizza il mio pensiero. Certo, alla fine, quando la gente vede un mio quadro tutto rosso, magari dice, in una sorta di monologo: “lo potrei fare anch’io”; poi però non lo fa perché ci sono problemi tecnici importanti dentro. Ma, nel momento che qualcuno dice “lo posso fare anch’io”, per assurdo, forse l’ha capito.

Angolo nero sul giallo, 2016, olio, acrilico e pigmento su tela piegata, 128 x 125,5 cm
Istintivamente, in risposta ad un impulso di conoscenza ulteriore, a volte mi prende, dinanzi ad una tua opera, la voglia di sciogliere le pieghe per vedere, capire cosa c’è dentro, dietro.

Cesare Berlingeri: Devi sapere che un grande teologo del Seicento sosteneva che “l’interno è identico all’esterno” e, quindi, se apri le mie pieghe, cosa ci trovi? Forse è la pelle ultima che conta. A me non interessa se vedo in te i tuoi muscoli, le tue viscere; a me interessa di te, di quello che vedo. Allora, quando si guarda una mia opera, che non si pensi al dentro ma si pensi solo al fuori e a tutto quello che c’è, come guardare un tramonto, il mare.

La mia era una pura provocazione per dire che non capita spesso davanti ad un’opera d’arte di provare queste sensazioni forti, ossia la voglia di entrare nell’opera, di andare oltre quello che l’occhio rimanda: è uno scavo del pensiero quello a cui faccio riferimento e che, sicuramente, fa la differenza tra ciò che è arte e ciò che arte non è.

Cesare Berlingeri: Anche la mia è una provocazione. E’ chiaro, però debbo ammettere che quello che tu mi dici è bello poiché è già successo.
Due giovani sposi hanno comprato una mia opera e l’hanno portata dal corniciaio perché volevano metterla in una teca. Quando hanno espresso al corniciaio la loro intenzione di incorniciare l’opera, questi, di rimando e con loro grande sorpresa, gli ha detto: “Bene, apritela”. Di fronte al loro diniego e alla spiegazione che era un’opera finita, stupito, gli si è rivolto con un emblematico: “Ah, allora ditemi voi”.
La sua è anche la logica di una cosa, una cosa avvolta, ripiegata che si apre per vedere cosa contiene dentro; quindi, pensava che il quadro non fosse quello, ma che stesse dentro il quadro. Questo mi ha affascinato molto. Mi ha affascinato il fatto che uno voglia sapere il quadro dov’è e allora chiede: “Apritelo che io non lo vedo”.
De Dominicis faceva “opere invisibili”, faceva il Cubo, la Piramide, il Cilindro invisibili. E’ il sogno dell’artista diventare invisibile, perché nell’invisibile sei visibile; il vuoto ti dà la concezione del pieno, perché sei tu a riempirlo.

Il concetto che viene fuori è un po’ un rimando metaforico al pane, al fatto che l’opera allo stesso modo si scopre sostanza, forza vera, spirituale.

Cesare Berlingeri: A me interessa il corpo non la sostanza. Alcuni miei lavori li ho chiamati “corpo-colore”. La gente, quando sente, come titolo di una mostra, “Corpi”, pensa di andare a vedere il corpo appeso al muro; invece, non è così, perché a me non interessa la tautologia, non mi interessa un corpo che rappresenta un corpo. Per me quello che è importante è il corpo dell’arte che diventa corpo nell’arte, cioè il corpo che io costruisco come un corpo-volume poi diventa il corpo dell’arte o della mia arte. Molta gente pensa a dei corpi, allora si aspetta di vedere gambe, braccia. Nei miei lavori ci sono alcuni accenni di busti, di cui non posso fare a meno perché anche una piega può avere l’accenno di un busto.

Un rosso per Antonello, 2016, olio e pigmento su tela piegata, 205 x 71 cm
Il mio riferimento voleva essere la chiara metafora della materia creativa che, tra le tue mani, si gonfia e lievita proprio come il pane, che racchiude dentro di sé la forza che la fa esplodere in mille forme.

Cesare Berlingeri: Mentre il pane è il ben di Dio che tu tagli e mangi, l’arte è il ben di Dio che tu apri e non mangi. La differenza è di una materia che dà vigore e forza allo stomaco e ai muscoli e l’arte che dà forza e vigore allo spirito e alla mente. Per me hanno uguale potere.

Parli di “Corpo-colore” oltre che di “Corpi”. Significa che il colore è materia, corpo, ma anche che la materia propria del colore è anche il suo corpo. Sono corpi che coesistono in un’unicità sostanziale. La materia con cui realizzi l’opera e il colore sono fatti della stessa sostanza.

Cesare Berlingeri: Infatti, quando si parla di sculture per i miei lavori, si usa quella brutta parola “pittoscultura” che usano i mercanti o alcuni galleristi: non c’è peggiore espressione di “pittoscultura”, di questo ibrido messo insieme. E’ come se una pennellata di Marino Marini in uno dei suoi “miracoli” diventi “pittoscultura”; no, diventa un fulmine di colore messo su questo miracolo di bronzo. Queste definizioni mi hanno fatto sempre paura. Ho sempre pensato che nella scultura, quella classica, non ci sia muscolo,ma ci sia solo la pelle finale. Nel mio lavoro, invece, c’è il muscolo, cioè l’interiore dell’opera; è un corpo che cresce, che cresce sempre allo stesso modo, si trasforma anche. Oppure per il mio lavoro si potrebbe parlare di monadologia, però io non sono mai andato dietro alla filosofia della monade. La Von Drathen ha scritto un testo su di me parlando di monadologia e citando proprio il filosofo della monade, Leibniz. Ma i pittori non fanno filosofia, né raccontano fatti perché usano strumenti diversi. Io non ho mai accettato questa definizione perché sono un pittore carnale, un pittore di colore, di materia, non sono un filosofo.
Lei paragona il mio lavoro ad una monade, ad un mondo chiuso e questo può anche starci perché è una verità, perché una mia opera è sempre finita dove finiscono i bordi, mentre se tu guardi un quadro di un manierista del Seicento come Lotto, allora vedi gli angeli che arrivano dagli angoli, sono tagliati e io ho sempre pensato che ci fosse un al di là del quadro. Davanti ad un mio lavoro ci chiede cosa c’è dentro o dietro il quadro.

Cesare Berlingeri
Veduta parziale della mostra presso la Galleria Italia, Consolato Italiano di Miami, 2016
Può anche darsi che questo discorso della monade si attagli alla singola opera, ma nella tua opera però, tra i singoli lavori, c’è un filo di collegamento evolutivo coerente che il concetto di monade esclude.

Cesare Berlingeri: Quel pensatore immenso che è Nietzsche ne la Caduta degli idoli, diceva: “L’opera d’arte nasce dal piacere della distruzione di se stesso”. Allora Picasso quando fece le “ Les Demoiselles d’ Avignon” aveva distrutto completamente a colpi d’accetta la tela. Io non solo l’ho distrutta, l’ho proprio raccolta, chiusa, non faccio vedere niente oppure tutto, comunque in quel momento distruggo l’idea di finestra o di superficie con cui eravamo abituati a vedere il quadro. In questo senso forse anche la distruzione di un’opera passa attraverso l’opera perché non sappiamo qual è il confine tra la distruzione dell’opera e delle cose tremende; la tragedia del sublime nasce sempre da una distruzione: i quadri di Bacon sono sublimi nel figurativo e nascono da una distruzione.

La bellezza di un’opera è in quel continuo processo di scavo attuato da chiunque si ponga davanti ad un quadro. E’ la vera forza del contemporaneo quando è arte ed è anche la tua forza, la forza del tuo alfabeto, di quel chiuso che, in fondo, è aperto perché si apre dentro ciascuno, dentro chi osserva. Questo è già un nesso bellissimo che collega, prima di tutto, tutte le tue opere, ma poi crea un collegamento impalpabile fra tutti quelli che fruiscono dell’opera, fra i tanti universi individuali che si connettono al tuo nell’osservazione di quel “corpo- colore”.

Cesare Berlingeri: Io ho sempre pensato che l’artista non ha il diritto di spiegare un quadro. Invece è bello quello che tu dici, perché tu ti poni di fronte al mio quadro che non mi sono mai spiegato. Non mi sono mai domandato perché la terra fa dei fiori con dei colori splendidi, ma li guardo e resto estasiato. Per cui spero che chi guarda la mia opera non vada oltre a cercare altre cose, ma guardi come si guarda il colore in un fiore, l’aria in un fiore, la forma in un fiore. Poi, qualcos’altro, o nella morte o nel cadavere, quello che a me interessa è dare un’emozione a chi guarda un mio lavoro, altro non mi interessa, non voglio andare a cercare discorsi né filosofici né trascendentali. Io , ogni volta che dipingo un’opera o che mi metto a costruire un mio lavoro, ho il bianco nel cervello: io ci arrivo come un bambino che non ha ancora imparato a scrivere e comincia tutto da capo, dalle asticine per arrivare ad un alfabeto compiuto. Ho sempre pensato che entrando con purezza nel tempio del mio lavoro può darsi che la preghiera abbia effetto.

Veduta dell’installazione presso ANNI Art A-16 798 Factory, Beijing China, 2005
Questo incantamento, che avviene e può avvenire, necessita anche della purezza di chi fruisce dell’opera. L’artista si pone di fronte alla tela bianca con la purezza di un bambino, ma anche chi ne fruisce deve porsi con lo stesso animo.

Cesare Berlingeri: Questo sarebbe bellissimo. Il massimo della comunicazione è metterti davanti ad un paesaggio infinito, metterti a guardare e non pensare di essere sulla terra. Allora, guardando un’opera d’arte che abbia dentro di sé una forza, un’emozione è quella di potere lievitare: è questa la magia dell’arte.

L’emozione nel guardare un fiore che tu ripeti con la tua opera, necessita della consapevolezza, in chi si pone davanti ad un tuo lavoro , che con esso non intendi riprodurre un fiore o il colore di un fiore bensì intendi consolidare il forte filo rivoluzionario dell’arte contemporanea , quello che ritorna sull’uomo, che rimette l’uomo al centro della creazione artistica.

Cesare Berlingeri: L’uomo è stato sempre centralità nel mio lavoro. Purtroppo la gente quando non capisce questo, pensa che dare centralità all’uomo sia solamente dipingere un uomo con un corpo, invece non è così. L’arte la fa l’uomo, quindi, è centrale nell’uomo tutto questo, ancor di più. Non lo è in senso rappresentativo, ma lo è in tutte le sue coordinate spirituali. Per cui, trovo assurda la pittura che fa una rosa, che rappresenta una rosa. Tutto questo è talmente senza logica che veramente parli del vuoto. Come diceva Rilke: “ Il vero canto è nel nulla, un impeto di Dio, un colpo di vento” . L’arte è veramente l’impeto di Dio; gli impeti di Dio sono come il vento, come la nube del vulcano islandese che ci sovrasta, ci fa paura, perché è bellissima. Sai, forse più di un buon quadro, mi interessa la crepa sul muro, perché è determinata da forze di cui noi non possiamo stabilire la potenza, allora diventa il mistero. A me interessa il mistero.

Avvolgere la notte, 2013, misure variabili, h280, courtesy dell artista tecnica su tela avvoltapigmento acrilico smalto-e legno
Nelle tue pieghe c’è il mistero.

Cesare Berlingeri: C’è un mistero non mio. C’è un mistero di tutti quelli che guardano, perché si chiedono cosa c’è dietro. Io no.

I tuoi colori sono particolari, unici nella loro accensione.

Cesare Berlingeri: Intanto la cosa che mi piace di più è il suono del colore, il suono puro. Io ne ho scelti tre: i primari, le tre madri che danno tutti gli altri colori, il cui suono è purissimo.

Cesare Berlingeri in studio 2018

Teodolinda Coltellaro

Founder e Redazione | Lamezia Terme

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