Artalkers

Tra Oceano, memoria e resistenza: geografie caraibiche a Ocean Space, Venezia 

La curatrice dominicana Yina Jiménez Suriel racconta la genesi di “otras montañas, las que andan sueltas bajo el agua (altre montagne, dissolte sotto l’acqua)”, parte del progetto triennale The Current IV. La mostra intreccia geologia, memoria e pratiche di resistenza nei Caraibi e condivide una riflessione sull’oceano come spazio trasformativo

Ogni volta che visito Ocean Space a Venezia incontro storie e visioni di popoli lontani, profondamente legati all’oceano. Sono esperienze che equivalgono a un viaggio, che aprono prospettive diverse e la voglia di saperne di più.

Durante la mia ultima visita, tra suoni sommersi e installazioni delle artiste invitate Nadia Huggins e Tessa Mars, è nato il desiderio di approfondire la mostra, parte di The Current IV, il ciclo triennale di ricerca promosso da TBA21–Academy, che in questa edizione, curata da Yina Jiménez Suriel, esplora il Mar dei Caraibi come spazio geologico, immaginativo e politico.

Dopo aver assistito a un talk con la curatrice e le artiste, ho avuto una conversazione con Yina, in collegamento dalla Repubblica Domenicana. Abbiamo discusso il concetto centrale della mostra: il movimento, oceanico, geologico e delle popolazioni che hanno trasformato la deterritorializzazione in uno spazio di resistenza anti-coloniale tra le montagne e il mare, dando forma a strategie estetiche e che continuano a emergere da queste esperienze.

Le opere di Huggins e Mars evocano naufragi, piani geologici sovrapposti, voci sommerse e frammenti di storie che continuano a modellare il presente. La conversazione che segue tenta di restituire la visione del progetto, tra geografie mobili e immaginazioni da decolonizzare.


Ritratto di Yina Jiménez Suriel. Foto di José Rozó

Ritratto di Yina Jiménez Suriel. Foto di José Rozón, 2024.

Potresti spiegare ai nostri lettori il titolo della mostra e come si collega al progetto “The Current” nel suo complesso?

Yina Jimenez Suriel : Il titolo della mostra coincide con quello della ricerca: The Current IVth. Possiamo dire che la mostra rappresenta, in effetti, una sintesi del percorso di ricerca sviluppato nel corso del progetto. Da un lato, ci siamo concentrate sull’evoluzione geologica della regione caraibica. Ci tengo però a precisare che non uso con leggerezza l’etichetta “Caraibi”, perché, da un punto di vista concettuale, si tratta di una costruzione storica legata all’impresa coloniale.

E naturalmente questo termine ha i limiti della cornice in cui è stato creato. Penso che possa essere interessante, non solo per i Caraibi ma anche per altre parti del mondo a cui sono state assegnate etichette nate in specifici contesti storici, riflettere su come superare queste definizioni e trovare nuove narrazioni – raccontate con le nostre stesse voci.

Per questo motivo, abbiamo scelto di indagare l’evoluzione della placca tettonica caraibica, che ha un’origine oceanica. Esistono varie placche tettoniche di questo tipo sul pianeta, ma la maggior parte è costituita da masse molto più grandi. La placca caraibica, invece, è una piccola porzione di crosta terrestre, situata tra la placca del Nord e del Sud America, e presenta caratteristiche particolari. 

Per esempio, quella del Nord America, pur essendo molto più estesa non ha origine oceanica. È interessante notare che, nonostante le sue dimensioni ridotte la placca caraibica, essendo oceanica, scivola sotto quella nordamericana, poiché la crosta oceanica è la parte più pesante della “pelle” del nostro pianeta. (Una placca oceanica è una porzione della litosfera terrestre sotto gli oceani, più sottile, densa e in continuo movimento; una placca continentale è più spessa, meno densa e forma i continenti. N.d R.)

Tessa Mars, “a call to the ocean”, 2025. Vista della mostra “otras montañas, las que andan sueltas bajo el agua” [altre montagne, dissolte sotto l’acqua]“, Ocean Space, Venezia

Tessa Mars, “a call to the ocean”, 2025. Vista della mostra “otras montañas, las que andan sueltas bajo el agua” [altre montagne, dissolte sotto l’acqua]“, Ocean Space, Venezia. | Commissionata da TBA21–Academy. Foto: Jacopo Salvi

Adottare una prospettiva geologica significa anche collocarsi su una scala temporale completamente diversa: precedente all’esistenza dell’essere umano. Durante la nostra ricerca ci siamo concentrate sull’evoluzione geologica e sulla formazione delle montagne, anche in relazione alla presenza e all’esperienza umana.

Perché le montagne? Perché in diversi momenti storici sono state luoghi centrali per processi rivoluzionari. Numerose analisi archeologiche hanno fornito prove materiali che, prima dell’impresa coloniale, le montagne erano spazi fondamentali per le comunità indigene che abitavano questa parte del pianeta. 

Dopo l’inizio della colonizzazione, le montagne – anche quelle sommerse – sono diventate scenari centrali delle lotte per la libertà. E lo stesso accadde dopo la creazione dei primi Stati nazionali (come Haiti, Cuba, Guatemala, Colombia, Costa Rica): ancora una volta, le montagne sono state teatro di resistenza.

Da un lato, la prospettiva geologica ci permette di superare uno sguardo coloniale; dall’altro, la costruzione delle montagne ci riconnette all’esperienza umana. L’intreccio tra questi due livelli genera un nuovo scenario, che ci apre a possibilità nuove per immaginare forme di emancipazione.

Poi, se uniamo queste prospettive a quella dell’oceano — che sta simbolicamente e materialmente nel mezzo — vediamo come, nella nostra ricerca sull’origine oceanica del plateau e sui movimenti di liberazione nei diversi momenti della storia umana, emerga un elemento chiave: il movimento costante. Per me, l’oceano incarna proprio questo: il movimento. Non solo lo rappresenta, ma lo è. Ed è in questa qualità che abbiamo cercato una possibilità di trasformazione dell’immaginazione.

Nadia Huggins, “A shipwreck is not a wreck”, 2025. Vista della mostra “otras montañas, las que andan sueltas bajo el agua” [altre montagne, dissolte sotto l’acqua]“, Ocean Space, Venezia

Nadia Huggins, “A shipwreck is not a wreck”, 2025. Vista della mostra “otras montañas, las que andan sueltas bajo el agua” [altre montagne, dissolte sotto l’acqua]“, Ocean Space, Venezia. Commissionata da TBA21–Academy. Foto: Jacopo Salvi

Vorrei approfondire le strategie concettuali che, come hai spiegato, avete adottato come cornice per la mostra, in particolare il freestyle, il galleggiamento e la trasmutazione. Come si collegano questi elementi all’immaginazione? Che relazione hanno con il colonialismo e con un nuovo colonialismo che sfrutta l’oceano a fini estrattivi?

Yina Jiménez Suriel : Direi che non si tratta solo di forze coloniali in senso storico, ma soprattutto di quelle forze che operano secondo una logica binaria e stabile. Mi riferisco precisamente all’estrattivismo, che era parte integrante dell’impresa coloniale europea, ma che persiste ancora oggi sotto nuove forme. 

Viviamo in una logica coloniale perché anche la nostra immaginazione — quella che ci abita — resta ancorata a strutture binarie, fisse. È per questo che, parlando di geo-colonialismo politico, possiamo dire che anche quelli che un tempo venivano definiti “soggetti coloniali” continuano, in vari modi, a riprodurre questa logica.


È questo il motivo per cui hai parlato di “decolonizzare l’immaginazione”?

Yina Jiménez Suriel : Esattamente. Decolonizzare l’immaginazione significa decolonizzare l’inconscio, perché la logica coloniale è incisa proprio lì, nell’inconscio — che è una macchina in continua attività, che produce costantemente. Tornando alla tua domanda, penso sia molto importante sottolinearlo: non si tratta di buoni e cattivi, sarebbe più semplice se fosse così, ma è molto più complesso. Essere ciò che una volta veniva definito un ‘soggetto coloniale’— non ti esime automaticamente dal riprodurre logiche coloniali.

Per quanto riguarda le strategie e gli strumenti concettuali che abbiamo utilizzato nella mostra, si tratta di un impianto teorico che ho costruito nel corso di quasi tredici anni. L’ho elaborato nel tempo. In modo molto sintetico, potrei dire che queste strategie hanno preso forma all’interno dell’inconscio umano come risposte per superare il colonialismo — qualunque cosa questa parola significhi oggi. Non sono strumenti creati soltanto dagli esseri umani, ma il loro obiettivo è sempre quello: accedere all’inconscio.

Naturalmente, non tutti questi strumenti hanno la capacità di farlo. Ne ho discusso anche con la psicoanalista brasiliana Suely Rolnik, che ha collaborato con lo psicanalista, filosofo e semiologo Félix Guattari: insieme hanno elaborato l’ipotesi secondo cui alcune strategie sono in grado di toccare il desiderio, inteso in senso psicoanalitico come forza vitale. Toccare il desiderio significa aprire uno spazio, rendere possibile all’inconscio di esprimere altro, di segnalare che esistono possibilità differenti.

Tessa Mars, “a call to the ocean”, 2025. Exhibition view of “otras montañas, las que andan sueltas bajo el agua” [other mountains, adrift beneath the waves],

Tessa Mars, “a call to the ocean”, 2025. Exhibition view of “otras montañas, las que andan sueltas bajo el agua” [other mountains, adrift beneath the waves], Ocean Space, Venice. Commissioned by TBA21–Academy. Photo: Jacopo Salvi

Queste strategie e strumenti sono stati sviluppati dall’essere umano insieme a forze vitali molto più antiche, nel corso dei millenni, per accedere all’inconscio e superare le difficoltà imposte in determinati momenti della storia. Per entrare nel dettaglio di quelli che hai menzionato, abbiamo iniziato, già nel primo anno di The Current  IV, con il galleggiamento, la ripetizione, la trasmutazione e l’improvvisazione (freestyle). Sono tutte pratiche legate a diversi processi di emancipazione che hanno avuto luogo in questa parte del mondo, nei Caraibi.

Ma ci siamo resi conto che questi temi erano troppo vasti per essere affrontati tutti insieme, sarebbe stato dispersivo, e quindi ci siamo concentrati sull’improvvisazione e sul freestyle. Sono pratiche che appartengono allo strato più epidermico della maggior parte delle persone caraibiche, ma che al tempo stesso sono condivise anche con molte altre regioni del mondo.

Pensando a come mediare questo progetto nei Caraibi, a Venezia e in altri contesti globali, abbiamo cercato di trovare modalità per comunicare davvero, per creare spazi di dialogo. E, soprattutto, per spingere al massimo il potenziale trasformativo di questi strumenti e strategie.

Puoi parlarmi del popolo Garifuna? In che modo le vostre conversazioni su questo tema e con il popolo Garifuna stesso durante il progetto nei Caraibi hanno plasmato la base concettuale della mostra?

Yina Jiménez Suriel : Storicamente, i Garifuna sono un insieme di comunità indigene originarie del Sud America che si stabilirono inizialmente a Saint Vincent, dove cominciarono a resistere all’avanzata coloniale spagnola e britannica. In quel contesto, si allearono con africani ridotti in schiavitù: fu un momento cruciale di sincretismo. Si trattava, prima di tutto, di una popolazione indigena che era riuscita a resistere per più di un secolo alla colonizzazione. 

Da un punto di vista concettuale, i Garifuna hanno avuto un ruolo importante nella costruzione della ricerca. Si tratta di una delle poche comunità in questa parte del continente che abita oggi in diversi Stati nazionali: Guatemala, Belize, Honduras, Nicaragua, Saint Vincent e le Grenadine, e rappresenta una nazione formata da persone che sono riuscite a sottrarsi alla logica degli Stati nazionali. In un certo senso, costituiscono un ponte tra i Caraibi insulari e quelli continentali — e credo che questo sia un elemento davvero significativo.

Se adottiamo una prospettiva oceanica, non ha più senso distinguere nettamente tra isole e continente: abbiamo invece uno spazio che è stato modellato dal movimento dell’oceano in tempi geologici. 

Naturalmente, i processi di decolonizzazione hanno portato alla nascita degli Stati nazionali, ma questo non significa che non possano esistere altri modi — forse migliori — di condurre la vita. In questo senso, i Garifuna rappresentano una comunità fluida, capace di sfuggire alle logiche binarie e alle griglie rigide imposte dalla modernità politica.

Quando l’Inghilterra decise di intensificare l’occupazione coloniale, I britannici, non riuscendo a sottomettere i Garifuna, proposero un accordo. Ma in realtà l’obiettivo era sterminarli: li imbarcarono tutti su una nave con l’intenzione di abbandonarli alla deriva nell’Atlantico. I Garifuna, però, riuscirono a navigare nel Mar dei Caraibi e, dopo un naufragio nei pressi dell’isola di Roatán, in Honduras, iniziarono a stabilirsi lungo le coste delle attuali nazioni. Nella parte continentale dei Caraibi, non si sono insediati nelle montagne ma sempre in prossimità del mare.

Tessa Mars, “a call to the ocean”, 2025. Vista della mostra “otras montañas, las que andan sueltas bajo el agua” [altre montagne, dissolte sotto l’acqua]“, Ocean Space, Venezia. | Commissionata da TBA21–Academy. Foto: Jacopo Salvi

Tessa Mars, “a call to the ocean”, 2025. Vista della mostra “otras montañas, las que andan sueltas bajo el agua” [altre montagne, dissolte sotto l’acqua]“, Ocean Space, Venezia. | Commissionata da TBA21–Academy. Foto: Jacopo Salvi


Proviamo a collegare la storia dei Garifuna con le opere esposte a Ocean Space. Puoi parlarmi del lavoro di Nadia Huggins e di come riesce a trasformare un evento traumatico, come un naufragio, rappresentato dallo scheletro di uno scafo rovesciato, in uno spazio protettivo, in un possibile rifugio?

Yina Jiménez Suriel : Nel lavoro di Nadia l’unico vero collegamento con la storia dei Garifuna è proprio il concetto di naufragio in sé. Il pezzo di Nadia, in realtà, non vuole essere direttamente collegato alla loro storia. Molti studiosi Garifuna, per esempio, non interpretano il naufragio come un trauma, anche se esistono diverse prospettive su questo punto.

Uno dei modi in cui Nadia ha pensato il suo lavoro è stato: facciamo un passo indietro e proviamo a immaginare cosa stava accadendo nel momento stesso del naufragio, senza attribuirgli un significato definitivo. Vuole lasciare che siano gli storici delle comunità Garifuna a costruire quel significato, a raccontarlo.

Una cosa interessante del suo lavoro è che lo scheletro del relitto diventa uno spazio in trasformazione. Non possiamo dire che sia qualcosa di necessariamente bello o brutto: è, piuttosto, un passaggio, un cambiamento. E in questo senso si può creare una risonanza con l’esperienza dei Garifuna: indipendentemente da come venga etichettata quell’esperienza, l’evento del naufragio che entra in dialogo profondo con l’oceano, ha generato le condizioni per un modo diverso di abitare la regione.

Detto questo, la connotazione positiva si limita a quel momento iniziale. Non possiamo proiettare quel significato sull’intero processo storico. Ancora oggi, per esempio, la popolazione Garifuna in Guatemala affronta numerose difficoltà per affermare la propria libertà e il proprio diritto all’esistenza all’interno dello Stato guatemalteco.

The beginning is the end and the end is the beginning 7” di Nadia Huggins, 2021

Nadia Huggins,: “The beginning is the end and the end is the beginning 7”,i 2021


Puoi parlarmi di come, nei suoi lavori, Nadia Huggins rappresenta l’oceano come un’entità fluida, in costante trasformazione? I suoi video, all’interno dell’opera, sembrano raccontare proprio questa relazione.

Yina Jiménez Suriel:: Vorrei sottolineare che Nadia è una delle pochissime artiste nel panorama dell’arte contemporanea caraibica che ha cominciato, fin dagli inizi della sua carriera, a prestare attenzione all’oceano — quando ancora non era un tema centrale né “di tendenza”.

Secondo la mia interpretazione, questa attenzione nasce dalla sua esperienza personale di vita su una piccola isola — un’esperienza che non è, ad esempio, la mia. Per lei l’oceano è una presenza costante, un’entità sempre vicina. Ha con il mare un rapporto diretto, continuo, di tipo fisico e materiale. In altri contesti, come Cuba o Haiti, il legame con l’oceano è spesso mediato da pratiche spirituali; nel suo caso, invece, è qualcosa di quotidiano, sensoriale, corporeo.

Il suo mezzo principale è la fotografia — quindi la visione — e proprio la visione, intesa come senso dominante, viene trasformata da questo rapporto con il mare. Fin dall’inizio, il suo lavoro presenta una modalità di lettura e rappresentazione che mette in discussione le categorie fisse. Il suo sguardo è, da sempre, orientato alla trasformazione.

Quando ha iniziato a fotografare, attorno al 2010, si trovava in un momento di transizione molto preciso: quello in cui la crisi climatica stava diventando visibile, tangibile. Nadia ha iniziato a costruire il suo lavoro in uno spazio liminale, tra un oceano ancora sano e un oceano già malato, segnato da trasformazioni profonde.

Questo passaggio segna un secondo livello nel suo lavoro: se hai un legame autentico con l’oceano e sei testimone di quello che sta accadendo, allora quella relazione non può che diventare anche politica — nei diversi modi in cui una posizione politica può essere praticata.

Ritratto di Nadia Huggins

Ritratto di Nadia Huggins. Foto di Zaina Mahmoud, 2022.

Parliamo del lavoro di Tessa Mars. Trovo interessante il modo in cui intreccia l’elemento geologico delle montagne e l’oceano nel suo lavoro.

Yina Jiménez Suriel:: Sì, c’è un aspetto fondamentale nel lavoro di Tessa Mars che riguarda proprio l’intreccio tra montagne e oceano, ma per comprenderlo bisogna partire dal contesto della sua ricerca.

A un certo punto del suo percorso, Tessa ha cominciato a interrogarsi sulle figure della rivoluzione haitiana. I nomi noti, come Jean-Jacques Dessalines o Toussaint Louverture, sono tutti uomini. Per circa dieci anni, Tessa ha investigato le ragioni dell’assenza delle donne, dell’alterità in queste narrazioni eroiche. Sappiamo che non furono solo uomini a combattere per la libertà durante la rivoluzione haitiana, eppure c’è un’unica figura femminile inclusa nell’epica nazionale. 

Tessa ha preso questa figura marginale come punto d’ingresso per riflettere su chi è stato escluso dal racconto rivoluzionario. E questo, secondo me, è già qualcosa di straordinario: nessuno, prima di lei, aveva osato mettere in discussione un momento percepito in modo quasi unanime come positivo e fondante. Trovare un’artista capace di sollevare queste domande significava incontrare qualcuno in grado di sfidare il pensiero binario e stabile.

Servizio fotografico dietro le quinte per la produzione dell’opera A call to the Ocean (2025) di Tessa Mars, presso la sala scenografie del Teatro Comunale di Modena, Modena, 2025. L’opera è stata prodotta per la mostra otras montañas, las que andan sueltas bajo el agua [other mountains, adrift beneath the waves], Ocean Space, Venezia, 2025.

C’è poi un’altra caratteristica fondamentale nel suo lavoro: Tessa ha sempre avuto una forte relazione con lo storytelling. Anche se il suo mezzo principale è la pittura, la sua pratica è guidata dalla narrazione. E ho pensato che, se volevamo davvero mettere in discussione una prospettiva “terrestre” dei Caraibi e proporne una oceanica, allora sarebbe stato compito dello storytelling.

Gli artisti con una pratica narrativa forte sono, in questo senso, già in una posizione d’avanguardia, capaci di offrire nuove prospettive. Inoltre, Tessa ha un legame profondo anche con la performance e la scultura. Per questo ho immaginato che il suo lavoro potesse entrare in dialogo con quello di Nadia Huggins, soprattutto in relazione a un discorso sulle montagne, visibili e sommerse.

Sia io che Tessa veniamo da un’isola, Haiti, che ha le montagne più alte di tutti i Caraibi insulari. E questo cambia molto la nostra idea di “isola”. È una concezione diversa da quella, ad esempio, di Nadia, che vive una relazione più diretta e materiale con il mare.

Questa esperienza insulare delle montagne ha, però, una connessione molto forte anche con altri territori del continente: Costa Rica, Guatemala, Nicaragua, Colombia. Le montagne, infatti, sono state cruciali per l’esperienza del marronage. Se vogliamo chiederci dove sia nato il marronage, cioè la fuga e la resistenza delle persone schiavizzate, dobbiamo guardare alla zona che oggi è la Repubblica Dominicana, a poche miglia dalla frontiera con Haiti, in una catena montuosa chiamata oggi Sierra de Bahoruco. È da lì che il marronage ha cominciato poi a diffondersi.

Quindi non si tratta solo di una questione simbolica o metaforica: avere una prospettiva montana era essenziale, anche per pensare a come questa regione ha prodotto esperienze di libertà. Tessa, attraverso lo storytelling, parla della libertà in molti modi.

Personalmente, mi piace molto il fatto che non cerchi una pittura “perfetta”: quello che conta, nel suo lavoro, è la prospettiva ampia che riesce a offrire. 

Potresti spiegare il ruolo del suono nelle due installazioni in mostra?

Yina Jimenez Suriel: Il suono rappresenta probabilmente il linguaggio primario per la maggior parte della popolazione nei Caraibi – parlo del suono e della narrazione orale, intesa come modalità fondamentale di trasmissione della conoscenza. Nell’opera di Nadia, ad esempio, il suono è costantemente presente, con una forte predominanza delle frequenze basse. Queste, nei Caraibi, sono spesso associate a pratiche che inducono stati di trance: la percussione bassa, infatti, ha un ruolo centrale in molte cerimonie e rituali. In questo caso, si tratta di una strategia per favorire un’esperienza immersiva e più profonda del lavoro.

Nel caso di Tessa, invece, il suono è legato a riferimenti storici ben precisi, come la rivoluzione haitiana o l’esperienza del marronage. Quest’ultima, in particolare, si è articolata fin dalle origini anche attraverso l’uso della conch shell, uno strumento acustico che ha contribuito a costruire un vero e proprio linguaggio sonoro, permettendo così una forma di comunicazione e resistenza.

Un altro elemento significativo è che entrambe le installazioni sonore sono state realizzate dallo stesso musicista e sono modulate sulla stessa frequenza. Questo fa sì che, pur non essendo sincronizzate, le due composizioni si intreccino e si rispondano tra loro: il suono nell’opera di Tessa sembra reagire alla “chiamata” lanciata dall’opera di Nadia, generando un dialogo profondo tra i due lavori.

Nadia Huggins, “A shipwreck is not a wreck”, 2025. Vista della mostra “otras montañas, las que andan sueltas bajo el agua” [altre montagne, dissolte sotto l’acqua]“, Ocean Space, Venezia. Commissionata da TBA21–Academy. Foto: Jacopo Salvi

Quali sono state le principali sfide, e le opportunità, nel presentare storie provenienti dai Caraibi in un contesto italiano?

Yina Jimenez Suriel: È una situazione che ormai conosco bene, perché fa parte del mio percorso di ricerca. Uno degli aspetti più complessi è stato senza dubbio quello di rendere accessibili in mostra concetti molto densi, profondi e stratificati. Ma più che spiegare, l’obiettivo era creare uno spazio di scambio: un luogo in cui pubblico, artisti e istituzioni potessero realmente sedersi attorno a un tavolo e confrontarsi.

A Venezia – e più in generale in Italia – questo assume un peso particolare, data l’importanza di questo contesto nel panorama dell’arte contemporanea. La sfida più grande è stata forse quella di proporre un’immagine dei Caraibi che vada oltre gli stereotipi: un’etichetta imposta da storie coloniali, come i “Caraibi” britannici o le “Antille” francesi. Con questa mostra abbiamo voluto offrire uno sguardo alternativo, che si sottrae a queste definizioni.

Ci siamo interrogate non tanto su come l’esperienza coloniale abbia plasmato la relazione con l’oceano, ma piuttosto su cosa significhi oggi l’oceano stesso. È una questione aperta. Il rischio, se ci limitiamo a parlare solo delle conseguenze della colonizzazione dal XV al XIX secolo, è quello di vedere solo quel frammento di tempo – come se non ci fosse nulla prima, e nulla dopo.

Questa mostra, invece, si propone proprio di andare oltre, di raccontare l’Oceano al di fuori di una visione eurocentrica. E penso che uno degli aspetti più stimolanti di Ocean Space sia proprio questo: guardare all’oceano come a un’entità autonoma, non come a un luogo da cui ricavare risposte semplici, ma piuttosto come a uno spazio che solleva domande fondamentali – per chi vive nella regione caraibica, ma anche per il resto del mondo.

Se in futuro qualcuno nei Caraibi vorrà approfondire il progetto in modo più dettagliato, potrà farlo. Ma per me, in questo momento, era importante offrire una visione generale e aprire un discorso.


Ocean Space, Chiesa di San Lorenzo, Photo: gerdastudio

Info e approfondimenti:

Ocean Space, Venezia

Alessandra Alliata Nobili

Founder e Redazione | Milano
#donnenellarte #Iondra #sudestasiatico #cina #postfeminism #visualculture #videoart #artepartecipata #artepubblica #installazione #mediatechnology #arteambientale #arteambientata

Add comment

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

Artalkers
Panoramica privacy

This website uses cookies so that we can provide you with the best user experience possible. Cookie information is stored in your browser and performs functions such as recognising you when you return to our website and helping our team to understand which sections of the website you find most interesting and useful.