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Nari Ward: Holding Patterns

Nato a St. Andrews, Giamaica e cresciuto a New York dove vive e lavora, Nari Ward è considerato un artista influente a livello internazionale. Inizia a lavorare negli anni ’90 con oggetti raccolti nelle strade e nei palazzi abbandonati di Harlem, il suo quartiere, creando sculture e installazioni che sono complesse metafore di vita.

Il lavoro di Nari Ward si nutre di  tradizioni diverse e le opere, oggi portate a termine in varie parti del mondo, toccano le storie di comunità geograficamente e culturalmente disparate affrontando questioni umane e sociali, come povertà, politiche razziali ed economia.  Dare un nuovo contesto ad oggetti usati assume nel suo lavoro sfumature che spaziano dall’intimistico al magico, pur mantenendo sempre una forte presa nella contemporaneità. Nel febbraio 2018, il New Museum di New York dedicherà all’artista un’importante retrospettiva.

Abbiamo incontrato Nari Ward a Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno, dove ha recentemente inaugurato “Holding Patterns”, una mostra a cura di Ilaria Mariotti organizzata nell’ambito di “Arte – impresa – territorio”, un progetto iniziato nel 2013 sostenuto dal Comune di Santa Croce sull’Arno, Galleria Continua e Associazione Arte Continua. Per quest’edizione, UNIC- Concerie Italiane e Linea pelle S.r.l., ha invitato l’artista a confrontarsi con le dinamiche sociali e produttive delle fabbriche e del territorio, con un nuovo corpo di lavori.

Insistence on Opacity, 2018. Plexiglass, KEU 2001, ferro, pelo di animale (particolare). Ph. Ela Bialkowska OKNOstudio
Potresti spiegarmi il significato di Holding Patterns, titolo della mostra?

Nari Ward: Nel titolo, ‘Holding’ si riferisce ad un’idea di sostegno e supporto, ma allo stesso tempo evoca uno spazio di costrizione, di limitazione. Nel mio lavoro cerco sempre di giocare con le contraddizioni. È importante anche sottolineare che ‘holding patterns’ è un termine tecnico usato in aeronautica che significa restare nell’aria, non atterrare.

Quindi il titolo è anche una metafora della condizione umana, con un riferimento alla tecnologia. Siamo sospesi, ma senza necessariamente controllare chi ci tiene sospesi…è una condizione di controllo e vulnerabilità allo stesso tempo.

Per quanto tempo sei rimasto in questa zona per preparare questa mostra e quali materiali hanno maggiormente colpito la tua immaginazione quando hai visitato le fabbriche? 

Nari Ward: Sono venuto due volte e le visite, prima alla conceria, poi agli impianti di depurazione, sono durate due intere giornate. In entrambe le visite mi ha ispirato soprattutto l’energia dei lavoratori, il grande entusiasmo con cui mi hanno spiegato il processo produttivo. Il procedimento di lavorazione dei materiali rispecchia la mia pratica d’artista, perché si basa sulla trasformazione, concetto che per me è fondamentale.

Più distante dal mio lavoro è l’idea di fermare il tempo, stabilizzare il processo di decomposizione del cuoio affinché sia eterno, in altri termini la scienza di respingere la morte. Ma forse questo tema è sempre sottinteso nell’arte e nell’artificio.

I concetti di decadimento e di trasformazione sono stati i punti di partenza del il dialogo con i lavoratori della conceria e del mio lavoro, attraverso l’uso dei materiali ho poi dovuto costruire una trama per arricchire le opere di contenuti e coinvolgere gli spettatori.

Gifted Witness, 2018. Scarpe, lacci di cuoio. Ph. Ela Bialkowska OKNOstudio
 
E come è stata la tua esperienza con la comunità dei lavoratori?

Nari Ward: Non mi aspettavo che all’interno delle fabbriche ci fossero tanti immigrati.  Quando mi è stato presentato questo progetto ho pensato: il cuoio: perché no? È un materiale interessante, c’è una forte componente alchemica nel processo di lavorazione. Ma non avevo considerato il fattore umano degli immigrati Nordafricani, alcuni dell’Est europeo, che fanno un lavoro che molti italiani giovani non vogliono fare, anche per via dell’odore forte durante fasi della lavorazione. Il risultato è che in questa zona la popolazione è estremamente eterogenea da un punto di vista etnico. Questo mi ha fatto pensare a come avrei potuto intrecciare l’elemento umano con l’idea più tecnologica di trasformazione.

Insistence on opacity è un lavoro che s’ispira alla tua visita all’Istituto Culturale Islamico. Mi hanno intrigato i ciuffetti di pelo animale e una polvere dall’aspetto ferroso che racchiusa in piccoli contenitori circolari diventa un elemento di decorazione geometrica.

Nari Ward: Sì, infatti, volevo incontrare il capo della comunità. Ero anche molto interessato all’aspetto estetico dell’Istituto come spazio devozionale, e alcuni suoi semplici elementi di arredo sono confluiti nel lavoro, lo schermo e la sedia, ad esempio, che hanno molteplici riferimenti.

Ricostruiscono un ambiente intimo per l’ascolto, ma richiamano anche l’idea di uno spazio per un servizio, come ad esempio la bottega di un barbiere, con i ciuffetti di capelli per terra, in realtà pelo di capra, un’immagine che riprendo in un altro lavoro. O ancora come lo studio di un fotografo, quando ci si siede davanti ad uno schermo per fare una foto per un documento. Concettualmente m’interessava intrecciare l’idea di assistenza con quella di uno spazio istituzionale, burocratico.

Insistence on Opacity, 2018. Plexiglass, KEU 2001, ferro, pelo di animale Ph. Ela Bialkowska OKNOstudio

I contenitori con la polvere invece sono un mezzo attraverso cui veicolare un mistero all’interno del lavoro, che suggerisca all’immaginazione un’altra possibilità ‘oltre’.  La polvere che tu definisci ferrosa è in realtà un materiale molto interessante che riappare in altri lavori in mostra. È il prodotto di scarto finale che si ottiene dalla purificazione dagli inquinanti delle acque reflue della conceria, che una volta venivano scaricate nei fiumi. Ora invece, attraverso un processo di essicazione ad alta temperatura, lo scarto viene trasformato e poi raffreddato, ottenendo una cenere inerte che pur non essendo tossica non può essere rivenduta, perché non ha alcun possibile utilizzo.

Come artista sono rimasto colpito dal prodotto finale di un processo di ‘cremazione’ di quello che è stato un organismo vivente. Nell’opera ho messo in relazione questa cenere con l’idea di luce e di trasparenza come simboli di spiritualità, e inoltre i concetti di vuoto e assenza evocati da questa polvere sono una metafora per un altro tipo di aspettativa. Volevo cercare di rendere questo materiale misterioso anche da un punto di vista estetico.

Puoi spiegarmi il significato del lavoro Limpidus goats? Hai usato l’immagine della capra come metafora di democrazia in passato, al Socrates Sculpture Park, nel Queens nel 2017. In un’intervista spiegavi: “Sono animali interessanti, nel loro senso di comunità- ma sono anche animali sacrificali…Sono intraprendenti, ma anche molto avventurosi.”

Nari Ward: Forse Limpidus Goats è più legato all’aspetto sacrificale di questo animale. Quando visitando la conceria, ho visto dei cavalletti sui quali venivano appoggiate le pelli conciate ad asciugare e mi hanno spiegato che erano ‘capre’, ho pensato: ancora capre! Ho trovato la forma intrigante, e ho chiesto perché non usassero semplicemente un tavolo per lo scopo. Mi hanno spiegato che questo cavalletto è usato in tutte le concerie per dare una forma alle pelli che rispetti nel maggior modo possibile la forma dell’animale. Questo perché ogni parte del pellame ha un diverso utilizzo in pelletteria. Dalle mie visite ho imparato un sacco di cose!

Da un punto di vista formale come suggerisce la parola latina Limpidus, il lavoro è strutturato dalla combinazione di due opposti, trasparenza e opacità, e dall’effetto che produce sullo spettatore.  M’interessava ottenere un senso di mistero e di rivelazione combinando la trasparenza del plexiglass con l’opacità della polvere inerte al suo interno, mentre solitamente la mia strategia è diametralmente opposta, stratifico e ricopro per creare mistero.

Limpidus Goats, 2018.Plexiglass, polveri di estratti concianti: mimosa, quebracho, castagno. Ph. Ela Bialkowska OKNOstudio
Quando lavori lontano da New York, per le tue installazioni usi sempre materiali che trovi sul luogo?

Nari Ward: Cerco di farlo. Nel caso di questa mostra sono veramente rimasto sedotto dal materiale. Trovo che quando si prende parte a questi progetti, a volte i committenti sono molto collaborativi, altre volte ti sembra quasi di disturbare chiedendo spiegazioni sui materiali. Questa volta sono stato travolto in senso positivo dall’entusiasmo generale. Credo sia difficile per chiunque passare quattro o cinque ore di fila in una fabbrica guardando solo la tecnologia di una manifattura.

All’inizio, appena arrivato, ho pensato: oh mio dio, cosa ho fatto! Ma poi ho iniziato a capire il processo, la sfida di tentare di preservare un materiale usando chimica e tradizione, e dalla passione investita in tutto questo. Ciò che ho trovato più interessante, per cui è davvero valsa la pena di fare questo lavoro, è l’alchimia di sospendere il tempo, contro natura in un certo senso, stabilizzando e rendendo bello un elemento deperibile.

Back to Nature Treatment, 2018.Tubi, pelle, KEU 2001, ganci da conceria. Dimensioni variabili. Ph. Ela Bialkowska OKNOstudio
In una precedente intervista hai affermato che infondere mistero negli oggetti quotidiani è uno degli obiettivi che desideri raggiungere con il tuo lavoro. Ti ricordi quando hai iniziato ad usare oggetti o materiali di scarto?

Nari Ward: Da giovane artista, lavorare con oggetti usati e scartati era in gran parte dettato dalla loro reperibilità. Ora che ci penso utilizzai proprio il cuoio per il mio primo lavoro con un materiale di scarto. Stavo completando un ritiro come studente a Skowhegan, nel Maine. Vicino alla mia residenza, c’erano dei mulini ad acqua.  In questi mulini si usavano delle cinghie di cuoio per collegare le pale al motore. Avevo trovato un deposito di cinghie usurate ormai inutilizzabili, e la mia idea era quella di scavare una grande buca in terra, e realizzare una sorta di cesta intrecciando le cinghie di cuoio al suo interno, dove volevo collocare un piccolo tumulo, come un ovetto di pelli. Nel mio intento l’opera, che avevo chiamato Praise (lode) doveva creare un momento di riflessione, era uno spazio votivo, un’idea collegata al fatto che il processo di creazione del lavoro era stato intenso e ripetitivo.

Gli oggetti di scarto richiamano anche le vite precarie di chi non ha fissa dimora e si sposta utilizzando gli oggetti che trova. Anche questo è un sottotesto del tuo lavoro?

Nari Ward: Direi piuttosto che l’idea di spostamento è legata al fatto che come artista che lavora con oggetti trovati, dovunque io crei un’installazione con i materiali del luogo, qualsiasi materiale, che sia a Kansas City, Pisa o Santa Croce, il lavoro s’intreccia con la totalità della mia pratica creativa. L’ implicazione è che nessun materiale in essenza è ‘sbagliato’, perché in qualche modo lo si può fare funzionare. Quando vado in un posto nuovo non ho preconcetti, nessuna idea di quello che farò, ma cerco di essere il più possibile ‘nel presente’. Il succo è che ogni esperienza ha il suo potenziale, e la cosa migliore è affrontarla senza pregiudizi, con mente aperta.

Per quanto riguarda le persone senza una fissa dimora, i senzatetto, il mio lavoro non tocca direttamente l’argomento, lo troverei irrispettoso. I senzatetto si trovano a fare delle scelte di sopravvivenza, e non oserei mai paragonare il mio lavoro a scelte così drammatiche. Forse l’unico punto di sovrapposizione con l’argomento è che uso materiali che sono stati scartati da altri. Un altro possibile punto di contatto è ‘beuysiano’, nel senso che noi tutti abbiamo la capacità di creare ed inventare anche in situazioni critiche.

Piuttosto, un argomento sul quale ho riflettuto molto, anche in relazione al lavoro di artisti che ammiro, è l’idea di trauma, o meglio delle tracce lasciate da traumi socio-culturali, siano essi sommosse, ribellioni o crisi economiche. Gli artisti sono sempre intervenuti per ‘ricostruire’, in un certo senso. Io penso che il trauma, la consapevolezza della privazione da qualcosa, si sovrapponga spesso all’apertura di nuovi spazi creativi, alla ricostruzione.

Wishing Arena,2013. Cestini di plastica, legno, lumini, lattine. Photo by: Ela Bialkowska
A proposito di spazi creativi, la presenza di gallerie e studi d’artista ha spesso dato una seconda vita a zone in decadenza nelle metropoli, avviando processi di gentrificazione, con lo spostamento di classi meno abbienti verso le periferie. Hai affrontato questo argomento con lavori che coinvolgevano la comunità di Harlem, dove si stavano innescando questi processi. Esiste una responsabilità, anche se non intenzionale, dell’arte in questi processi?

Nari Ward: Credo che la gentrificazione sia un processo inevitabile tipico del capitalismo avanzato. Il ragionamento da farsi quando un quartiere sta per cambiare, e questo processo di cambiamento non può essere fermato, è che lo spazio dei suoi abitanti sia preservato il più possibile, che non perda la sua identità. Le persone economicamente privilegiate si muovono con l’idea di rendere un luogo ‘migliore’, ma il posto è già migliore, ha la sua storia.  Piuttosto, chi arriva deve capire come farne parte, non subentrare. Credo fortemente che si debba lottare per la denominazione e la rivendicazione di questi spazi, in modo che le persone che vi si trasferiscono ne percepiscano l’identità, sentano di farne parte.

Proprio per questo, da un punto di vista artistico, interpretare l’arte pubblica come arte partecipata dalla comunità può aiutare a mantenere l’identità di un luogo? Penso ad esempio al tuo progetto Sugar Hill Smiles del 2014, in cui con un’operazione concettuale manzoniana inscatolavi in lattine i sorrisi dei residenti di Harlem per poi venderle a beneficio d’iniziative locali di educazione.

Nari Ward: Un’espressione che uso spesso è “tentare di essere un’estremista creativo”.  A mio parere il beneficio che l’arte può creare in uno spazio pubblico è quello di coinvolgere l’immaginazione: più la si stimola, più le persone sono indotte a riconsiderare i propri ruoli. Idealmente, l’arte pubblica dovrebbe essere in grado di coinvolgere lo spettatore in modo interessante e aperto, e allo stesso tempo renderlo consapevole del proprio cambiamento di fronte al lavoro.

Questo perché credo che nell’era digitale, l’immaginazione sia una delle facoltà che oggi sono maggiormente messe alla prova.  Da bambino avevo tre giocattoli in croce, ed ero costretto ad immaginarmi tutto quello che potevo fare con questi giochi. Ora i bambini possono semplicemente andare su un sito ma il loro modo di navigare questi spazi è ‘programmato’.

Untold, 2013. Bottiglie, struttura in metallo, fogli di carta, cavo di metallo Courtesy: The artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by: Oak Taylor-Smith.
Cito le tue parole durante un’intervista per Art in America nel 2011: “ho vissuto a New York per gran parte della mia vita, ma quando vado in Europa mi chiamano sempre ‘l’artista giamaicano che vive a New York’.  Ho pensato: aspetta un secondo. Sono un newyorkese!”  Ti succede la stessa cosa anche in Italia?

Nari Ward: Stranamente non è successo durante questa visita. Sono spesso le gallerie a presentarmi come artista giamaicano, magari perché sono globali e hanno una scuderia di artisti di diverse nazionalità.  Quindi tendono a ‘localizzare’ gli artisti per i collezionisti.

È la logica paradossale della globalizzazione: glocal, globale e locale…

Nari Ward: Sì è vero. L’ho notato particolarmente partecipando alle biennali, che seguono dinamiche globali, dov’ero indicato come ‘giamaicano che vive a New York”. Il bisogno di assegnare delle categorie è anche una componente del mercato. Questa cosa ora mi fa sorridere ed è diventata un elemento ironico del mio lavoro. Ad esempio durante la mia ultima visita a Roma, dove è iniziato il progetto dei sorrisi in lattina, avevo creato lattine di Jamaican Smiles e Black Smiles – le prime “fatte in Giamaica e distribuite in Italia”, le seconde “fatte in America e distribuite in Italia”. Era un modo di giocare con l’assurdità delle categorizzazioni, delle etichette.

Penso però che sia inevitabile essere etichettati, e questo ha naturalmente a che fare con questioni più importanti che riguardano l’identità in senso ampio. Ad esempio si può ragionare su come il concetto di ‘whiteness’, l’essere bianco, sia stato creato e come sia storicamente diventato neutrale. Alcune nozioni storiche sono create per particolari propositi. In questo momento il concetto d’identità ha assunto un ruolo primario in America, perché il nostro attuale presidente lo ha messo al centro del dibattito.

Ti cito nuovamente, da un’intervista che hai rilasciato ad Artnet News nel 2017: penso che gli artisti di colore debbano essere molto più responsabili delle celebrità nel mondo dell’arte contemporanea. Lo pensi ancora?

Nari Ward: Assolutamente. Se hai il beneficio di avere avuto accesso a ruoli privilegiati nel mondo dell’arte, cosa non frequente nel passato, hai il dovere di raggiungere e creare ruoli per altri che sono meno fortunati. Troppo spesso prevale quella che io chiamo la mentalità dello schiavo, o del granchio nel secchio, un modo di dire che in America significa che per salvarsi il granchio abbatterà qualsiasi altro suo simile che cerca di arrampicarsi fuori dal secchio nel tentativo di essere il primo a salvarsi. La mentalità degli individui liberi è quella di pensare a come tutti possiamo riuscire a fare meglio. Quest’ultima in effetti è la mentalità della capra! Le capre cercano sempre di arrampicarsi in alto, insieme.

We the People, 2012. Lacci da scarpe. 243.8 × 823 cm.
Il prossimo febbraio il New Museum di New York ti dedicherà una grande retrospettiva. Puoi anticipare qualcosa sulla mostra?

Nari Ward: La mostra s’intitolerà We The People. Prende nome da uno dei miei lavori, che esprime le prime parole della costituzione americana utilizzando le stringhe delle scarpe. L’idea generale della mostra è quella di creare un confronto fra i miei primi lavori degli anni novanta e lavori più recenti, degli ultimi tre/quattro anni.  Considero la mostra un privilegio perché non tutti gli artisti hanno l’opportunità di osservare la traiettoria del proprio percorso creativo attraverso le lenti e la struttura di un’istituzione.

Massimiliano Gioni che cura la mostra è stato molto bravo nella scelta dei lavori. Per me è una mostra importante perché è stato proprio il New Museum negli anni novanta a permettermi di esporre un lavoro in uno spazio istituzionale per la prima volta, un pezzo che si chiamava Carpet Angel. Questo lavoro non è mai più stato esposto da allora: sarà in mostra a febbraio, quindi la mostra davvero rappresenta per me la bellissima, poetica chiusura di un cerchio.

Inoltre Carpet Angel ha davvero una storia strana! Il lavoro fu acquistato da una mia meravigliosa collezionista, una persona un po’ eccentrica: si innamorò del lavoro e lo acquistò immediatamente, ma questo rimase nel mio magazzino. Purtroppo la collezionista venne a mancare in un incidente tragico insieme al marito tre anni dopo, e la collezione d’arte passò alla figlia. La chiamai, le spiegai che il lavoro era ancora in mano mia e le dissi di venire a ritirarlo. Da allora il lavoro è rimasto in un seminterrato, nelle ultime settimane l’ho restaurato ed è stato grande rivederlo nel mio studio, ed anche una specie di rito di passaggio, un po’ magico.

Quindi sarà una mostra magica?

Nari Ward: Assolutamente magica!

Nari Ward, Ballast of Miracles, 2018. Resina, oggetti trovati, KEU2001, ferro, cemento. Dimensioni variabili / variable dimensions.

Alessandra Alliata Nobili

Founder e Redazione | Milano
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